Perché le parole “non vengono”? «Non è per forza demenza, a volte è colpa del multitasking»

La ricerca del neurochirurgo Giorgio Fiore: le origini più comuni sono invecchiamento e perdita di neuroni. Lo sport può aiutare L'articolo Perché le parole “non vengono”? «Non è per forza demenza, a volte è colpa del multitasking» proviene da Open.

Mar 27, 2025 - 07:21
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Perché le parole “non vengono”? «Non è per forza demenza, a volte è colpa del multitasking»

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A volte le parole non vengono. Spariscono. Amano giocare a nascondino quando sono «sulla punta della lingua». Ma non escono. Perché? Quando ne cerchiamo una, spiega oggi Elena Dusi su Repubblica, mobilitiamo le aree cerebrali come l’ippocampo e la corteccia. Che a volte ci suggeriscono quella sbagliata. Giorgio Fiore, neurochirurgo dell’Irccs Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, spiega perché che dimenticare le parole non è quasi mai un segno di demenza: «Il fenomeno può avere varie origini. Le più comuni sono invecchiamento e perdita di neuroni per via dell’età, stress, multitasking, disattenzione e carenza di sonno che ostacolano la formazione di memorie robuste».

La ricerca

Il professore ha condotto una ricerca all’University College London che collega le dimensioni di alcune aree del cervello (soprattutto nella corteccia cerebrale e nell’ippocampo) all’efficienza della memoria verbale. La rivista Brain Communications ha pubblicato i risultati: «Lo studio riguarda persone con epilessia, ma ci aiuta a capire il meccanismo con cui memorizziamo le parole e cerchiamo di recuperarle. Pensavamo che l’unico perno della memoria fosse quell’area fantastica chiamata ippocampo. Negli ultimi anni abbiamo scoperto che anche la corteccia cerebrale gioca un ruolo importante. Conserva degli schemi di memoria che possiamo paragonare a impalcature o scaffali. I singoli ricordi, come tanti libri, vi trovano posto sopra. Ma non sempre sono disposti in modo ordinato. E ogni volta che impariamo una parola nuova il cervello cerca di fargli posto fra quelle già note, cercando di capire quanto sia importante e diversa dalle altre».

Cosa accade quando proviamo a ricordare

Quando proviamo a ricordare, spiega Fiore, «si attiva un gioco di squadra fra ippocampo e corteccia, in particolare la corteccia pre-frontale. Una terza area, quella del cingolo, funge da ponte. Il direttore d’orchestra del processo è comunque l’ippocampo. È lui a selezionare le aree della corteccia, cioè gli scaffali, dove collocare una nuova memoria». A volte la memoria inciampa per «la riduzione del numero di cellule che si occupano di far funzionare il meccanismo. La perdita di neuroni è un fenomeno normale con l’età. L’ippocampo è una delle poche regioni del cervello dove una certa rigenerazione dei neuroni avviene. A favorirla è l’attività fisica».

Dimenticare le parole

Dimenticare le parole non è necessariamente un prodromo della demenza: «Nelle demenze la perdita di neuroni nella corteccia compromette la capacità di formare nuove memorie. I ricordi più antichi, conservati soprattutto nell’ippocampo, tendono invece a rimanere intatti più a lungo». Un effetto negativo è invece l’abuso di alcool. Oltre all’attenzione: «Se torno a casa parlando al telefono e appoggio le chiavi in un luogo diverso dal solito, non ricorderò mai dove le ho messe. Poiché nel momento in cui le posavo non ero attento, nessuna memoria è stata codificata per quell’evento». E ancora: «Molto è colpa del multitasking. Fare due o tre cose insieme è molto oneroso per il cervello, che non formerà ricordi robusti».

La parola dimenticata

Infine, Fiore spiega cosa succede nel cervello quando si cerca una parola dimenticata: «Viene indetta un’elezione. Immaginiamo che io abbia di fronte una rosa. La corteccia cerebrale ripescherà dai suoi scaffali 3 o 4 parole che potrebbero descriverla: rosa, geranio e tulipano. Il compito di eleggere la parola giusta spetta all’ippocampo, che sceglie in base a quanto è forte la connessione fra i neuroni che esprimono il concetto di rosa e quelli delle tre parole. Può darsi che la connessione più forte sia quella del tulipano. In questo caso diventerà difficile recuperare il termine esatto. Sappiamo che il fiore che abbiamo di fronte non è un tulipano, ma la memoria continuerà a restituirci quella definizione. Il partito della parola sbagliata ha vinto le elezioni e continuerà a distrarci dalla definizione giusta. A nulla serviranno gli sforzi di miliardi di neuroni. Finché non formeremo una memoria di rosa nuova e più forte, per noi quel fiore resterà senza un nome».

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