Non solo Usaid: anche gli Stati europei tagliano gli aiuti allo sviluppo

Regno Unito, Francia, Belgio e Paesi Bassi sono tra i Paesi che hanno sforbiciato gli aiuti allo sviluppo. Spesso a favore del riarmo L'articolo Non solo Usaid: anche gli Stati europei tagliano gli aiuti allo sviluppo proviene da Valori.

Mag 6, 2025 - 07:52
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Non solo Usaid: anche gli Stati europei tagliano gli aiuti allo sviluppo

Ha destato scalpore – comprensibilmente – la scelta di Donald Trump di smantellare Usaid, l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale. Perché gli Stati Uniti sono di gran lunga il primo donatore di aiuti umanitari in assoluto. Senza il loro sostegno, numerose organizzazioni non governative si sono trovate costrette a ritirarsi da un giorno all’altro, licenziare i dipendenti e deprivare dell’assistenza umanitaria e sanitaria essenziale centinaia di migliaia di persone nel mondo. Tenendo presente quanto il ruolo degli Stati Uniti sia centrale e insostituibile, viene da chiedersi come si stiano comportando tutti gli altri Paesi. Pur muovendosi su altri ordini di grandezza, stiano almeno facendo la loro parte per tenere in piedi il sistema degli aiuti allo sviluppo? Stando a quanto riportato da Le Monde la risposta è no. Il riarmo, a quanto pare, desta molto più interesse.

Regno Unito: tagli agli aiuti per finanziare la spesa militare

Nel Regno Unito il tema è stato al centro di un caso politico. A fine febbraio, infatti, il premier laburista Keir Starmer ha annunciato l’intenzione di incrementare le spese per la difesa fino al 2,6% del Prodotto interno lordo (Pil) nel 2027. Il piano è quello di raggiungere il 3% nella legislatura successiva, vale a dire entro il 2034. Una cifra che il governo laburista vuole recuperare tagliando gli aiuti allo sviluppo.

Dopo il primo sacrificio deciso nel 2021, quando in seguito alla pandemia sono passati dallo 0,7 allo 0,5% del reddito nazionale lordo (Gni), nel 2027 gli aiuti scenderanno ancora fino allo 0,3%. Seppure con la promessa di ritornare allo 0,7% quando le circostanze lo permetteranno. Tradotto in cifre: nel 2025 il Regno Unito aveva speso per gli aiuti allo sviluppo 15,3 miliardi di sterline (17,9 miliardi di euro), cioè lo 0,58% del Gni. Nel 2027, secondo le stime di crescita del Gni, si fermerà a 9,2 miliardi (10,8 miliardi di euro). La cifra non era così bassa dal 2012. Guardando invece alla percentuale sul Gni, accontentarsi dello 0,3% significa tornare indietro ai livelli del 1999.

Keir Starmer ha promesso di garantire comunque il supporto alle zone di guerra come Gaza, Sudan e Ucraina. Nonché ai progetti legati alla crisi climatica e ai vaccini. Ma se i tagli sono così profondi rispettare questo proposito è «impossibile», ha replicato Anneliese Dodds, viceministra britannica con delega per lo Sviluppo e le Pari opportunità. Che, per tutta risposta, ha rassegnato le sue dimissioni.

Gli obiettivi Onu sull’aiuto allo sviluppo restano lontani per i Paesi ricchi

Il Regno Unito ha fatto scalpore ma non è solo. I membri del Comitato di assistenza di sviluppo dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) nel 2023 avevano stanziato complessivamente 223,3 miliardi di dollari in aiuti allo sviluppo (la sigla è Oda, da Official development assistance). Una cifra record. Nel 2024 si sono fermati a 212,1 miliardi di dollari. È stato il primo calo dopo cinque anni consecutivi di crescita. E si spiega soprattutto con la riduzione dei contributi alle organizzazioni internazionali, degli aiuti per l’Ucraina, degli aiuti umanitari e delle spese per l’accoglienza dei rifugiati nei Paesi donatori.

Nel loro insieme, dunque, le economie avanzate hanno destinato agli aiuti allo sviluppo soltanto lo 0,33% del loro Gni cumulativo. Fin dagli anni Settanta le Nazioni Unite chiedono a gran voce di arrivare almeno allo 0,7%, un obiettivo previsto anche nell’Agenda 2030. Ma soltanto quattro Stati, dei 32 monitorati, superano questa soglia: Norvegia (1,02%), Lussemburgo (1%), Svezia (0,79%) e Danimarca (0,71%). Manca – per un soffio – la Germania, seconda solo agli Stati Uniti per volume di Oda. Perché nel 2024 ha tagliato miliardi. Anche la Svezia, storicamente “generosa”, con il cambio di governo nel 2022 ha formalmente abolito l’obiettivo di raggiungere l’1% del Gni. Per il triennio 2026-2028 ha fissato un budget di 5 miliardi di dollari all’anno, vale a dire 284 milioni all’anno in meno rispetto al triennio precedente.

Europa: i Paesi che tagliano gli aiuti allo sviluppo

Peraltro, quelle riportate dall’Ocse per il 2024 sono cifre destinate a invecchiare in fretta. Perché conteggiano ancora i 63,3 miliardi di dollari erogati dagli Stati Uniti prima dei tagli draconiani voluti da Trump. Nel 2025, spiega inoltre Le Monde, anche il budget della Francia per gli aiuti allo sviluppo cala del 37%: la differenza rispetto all’anno precedente è di 2,1 miliardi di euro. Il Belgio taglia 318 milioni, vale a dire il 32% del bilancio. I Paesi Bassi hanno optato per una sforbiciata di 2,4 miliardi di euro all’anno a partire dal 2027. Soldi che verranno reindirizzati verso la difesa degli «interessi olandesi nei settori del commercio e dell’economia, della sicurezza e della stabilità, nonché della migrazione».

L’Italia nel 2024 figura all’ottavo posto nella classifica dei Paesi Ocse per volume di aiuti allo sviluppo, con un totale di 6,67 miliardi di dollari. Ma scivola nella seconda metà della classifica se si valuta la percentuale sul Gni: appena lo 0,28%. L’aumento rispetto al 2023 è di circa 400 milioni di dollari, ma non è sufficiente nemmeno per compensare il taglio di 631 milioni operato l’anno precedente. Per il 2025 la legge di bilancio stanzia più risorse per il ministero dell’Economia e delle finanze e per il ministero dell’Interno. Viceversa, cala il budget del ministero degli Esteri e della cooperazione internazionale (Maeci) e dell’Agenzia per la cooperazione.

Aiuti allo sviluppo in calo: è stato superato il picco storico?

Qualcosa sta cambiando, evidentemente. All’inizio di quest’anno, prima ancora degli ultimi dati Ocse, un editoriale del Guardian ipotizzava che il 2023 segnasse il picco degli aiuti allo sviluppo. Perché al di là degli estremismi trumpiani, a tagliare gli aiuti allo sviluppo sono anche governi progressisti – come quello britannico, laburista. E sono anche Paesi con un bilancio in salute – come la Norvegia, che ha fatto affari d’oro con le vendite di gas e petrolio con la guerra in Ucraina. Anche il record del 2023 potrebbe rivelarsi gonfiato. La definizione di Oda adottata dall’Ocse, infatti, comprende anche il sostegno a Stati in guerra come l’Ucraina. Oppure le spese per accogliere i rifugiati entro i propri confini: ciò significa che il denaro, di fatto, resta nei Paesi ricchi.

Gli aiuti allo sviluppo – continua Le Monde – sono difficili da giustificare all’opinione pubblica. Se Oltreoceano impera il motto dell’America first, in Europa un senso di solidarietà internazionale esiste ancora, ma rischia di passare in secondo piano rispetto alle cosiddette priorità. Come la sicurezza. Oltretutto, lo stesso concetto di “aiuti allo sviluppo” è tutt’altro che immediato perché si declina su tante priorità (dalla salute alla biodiversità) e in tante direzioni. Senza dimenticare il sottotesto politico che c’è sempre stato, fin da quando John Fitzgerald Kennedy e Charles De Gaulle presentavano gli aiuti internazionali come leve per consolidare la propria sfera di influenza.

C’è chi sostiene che un continente come l’Africa, che tuttora dipende dall’estero per un terzo della propria spesa sanitaria, debba cambiare mentalità. Svincolandosi dalla logica dell’aiuto che pone in una condizione di dipendenza. Le alternative? «Attrarre investimenti e mobilitare risorse interne», secondo la direttrice della World Trade Organization, la nigeriana Ngozi Okonjo-Iweala. Oppure lavorare sulla tassazione, il cui tasso medio in Africa è del 15%, uno dei più bassi al mondo. O ancora, una riforma della fiscalità internazionale. «Solo l’1% del patrimonio delle 3mila persone più ricche del mondo basterebbe a coprire il budget dei cinque principali Paesi donatori», ricorda Esther Duflo, premio Nobel per l’economia nel 2019.

Le agenzie Onu tagliano il personale: tra trasferimenti e fusioni

Le agenzie delle Nazioni Unite si trovano costrette ad adeguarsi a questa drastica riduzione degli aiuti allo sviluppo da parte dei Paesi occidentali. Un terremoto che potrebbe dare origine a uno dei più grandi stravolgimenti organizzativi e operativi a cui l’Onu sia mai andata incontro nei suoi 80 anni di storia (che ricorrono proprio quest’estate). È quanto si evince da un documento interno, ancora confidenziale, che Associated Press è riuscita a esaminare. Il documento fa autocritica, segnalando «sovrapposizioni significative, inefficienze e costi crescenti nel sistema Onu», e dice apertamente che «i cambiamenti geopolitici e le riduzioni sostanziali nei bilanci destinati agli aiuti esteri stanno mettendo in discussione la legittimità e l’efficacia» dell’istituzione.

Associated Press riferisce che varie agenzie stanno già pianificando tagli al personale e ad altri costi, precedendo sul tempo le eventuali direttive da parte della sede centrale. Tra di esse ci sarebbero il Programma alimentare mondiale (pronto a sforbiciare la forza lavoro fino al 30%), l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (intenzionato a ridurre del 30% i costi e del 50% le posizioni dirigenziali, l’Unicef e l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha). Si ipotizza addirittura di fondere più agenzie tra loro. Sempre con l’obiettivo di abbattere le spese, l’ufficio del segretario generale António Guterres avrebbe dato disposizione ai dipartimenti di trasferire il proprio staff da New York e Ginevra ad altre città meno costose. Il 1° maggio erano circa cinquecento i membri del personale Onu a protestare alla Place des Nations di Ginevra.

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