Michela Ponzani a TPI: “Non usate la Resistenza per sostenere il riarmo”
Professoressa, ottant’anni fa l’Italia veniva liberata dal nazifascismo. Fra altri ottant’anni, il 25 aprile 2105, nel nostro Paese si celebrerà ancora la Festa della Liberazione? «Nessuno può saperlo, gli storici non sono veggenti. La Resistenza potrebbe diventare qualcosa che appartiene a un nostro remoto passato, come le guerre garibaldine o i moti del 1820-21 che […]

Professoressa, ottant’anni fa l’Italia veniva liberata dal nazifascismo. Fra altri ottant’anni, il 25 aprile 2105, nel nostro Paese si celebrerà ancora la Festa della Liberazione?
«Nessuno può saperlo, gli storici non sono veggenti. La Resistenza potrebbe diventare qualcosa che appartiene a un nostro remoto passato, come le guerre garibaldine o i moti del 1820-21 che nessuno ricorda più. Ma uso il condizionale, “potrebbe”, perché in realtà, da quello che vediamo ogni anno in occasione delle celebrazioni del 25 Aprile, la Resistenza come fenomeno storico desta ancora una contrapposizione politica molto forte, che si riflette nell’opinione pubblica generale e che va ad alimentare un senso comune errato».
Cosa intende con «senso comune errato»?
«Circolano ancora nel dibattito pubblico una serie di contro-narrazioni che tentano di sminuire il valore storico e morale della Resistenza attraverso distorsioni della storia: la Resistenza che sarebbe stata inutile sul piano militare perché tanto ci avrebbero liberato gli Alleati, le azioni armate di resistenza equiparate ad azioni di terrorismo, la tragedia delle foibe equiparata alla Shoah la pregiudiziale antifascista costantemente rimessa in discussione…».
E quindi?
«Ciò fa pensare che la Resistenza continuerà ad essere un tema molto acceso. Almeno fin quando l’Italia non farà i conti con il suo passato. Il nostro è un Paese dalla memoria divisa, non pacificata, una memoria rancorosa alimentata nel corso del tempo da forze palesemente neofasciste, post-fasciste, missine. Anche da parte delle classi dirigenti ci sono stati tentativi di riscrittura del passato, di equiparazione fra vincitori e vinti… Venticinque anni fa, da presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi cercò di inaugurare una sorta di pedagogia patriottica incentrata sul recupero del Risorgimento e della Resistenza. Oggi possiamo dire che il suo tentativo di frenare una spudorata equiparazione fra le due parti in lotta è riuscito. Non è riuscito, invece, quello di frenare i veleni che ancora circolano nel dibattito pubblico».
Molti degli uomini e delle donne che hanno vissuto coscientemente il dramma della seconda guerra mondiale se ne stanno andando per sempre. E fra ottant’anni non ci saranno nemmeno i nipoti di quella generazione. Come si può conservare viva la memoria di fatti così lontani nel tempo?
«Di fronte a una cattiva memoria c’è innanzitutto bisogno di una buona storia: il lavoro degli storici diventerà ancora più importante. Certo, il grado di partecipazione empatica che possono restituire i testimoni diretti è incomparabile, però è anche vero che nel corso del tempo le loro voci e i loro volti sono stati raccolti attraverso videoregistrazioni e supporti digitali: quelle testimonianze sono fonti preziose per gli storici, ma anche per i semplici cittadini, che così potranno farsi testimoni del tempo, ossia trasformare quella memoria in un’eredità, un testamento».
Lo ricordava anche lei prima: quando si parla del 25 Aprile, spesso c’è chi tenta di sminuire il ruolo dei partigiani sottolineando che, senza l’intervento degli Alleati, il nostro Paese non sarebbe mai riuscito a liberarsi del nazifascismo. Proviamo a ribaltare il punto di vista: cosa sarebbe cambiato per l’Italia senza la lotta di Resistenza?
«Sarebbe cambiato tutto. Avremmo fatto la fine della Germania: occupata, smembrata, smilitarizzata, impossibilitata a scrivere una Costituzione, a darsi nuove istituzioni. Non avremmo avuto il diritto di giudicare davanti ai nostri tribunali i criminali di guerra nazisti. Questo è un diritto che noi ci conquistammo sul campo grazie al tributo di sangue della Resistenza. Fra l’altro, furono proprio gli Alleati a chiedercelo: nel 1943, in occasione di una conferenza inter-alleata a Mosca, Roosevelt e Churchill chiesero il supporto di un movimento di resistenza europeo. La Resistenza è stata un fatto politico di grande rilevanza, grazie al quale abbiamo riconquistato la libertà e la dignità di Paese libero. Ma ha avuto un ruolo importante anche sul piano strettamente militare: tante città furono liberate prima dell’arrivo degli Alleati e i partigiani diedero supporto logistico e informativo alle forze angloamericane».
Nel suo ultimo, “Donne che resistono”, lei racconta le donne che si batterono per trasformare le Fosse Ardeatine da teatro di un massacro a luogo di memoria.
«Sono vedove, madri, mogli, figlie delle vittime della strage: donne che nel dopoguerra resistettero all’oblio di chi avrebbe voluto dimenticare quei 335 caduti. I nazisti li avevano seppelliti sotto cumuli di macerie, ma quelle donne pretesero un riconoscimento uno ad uno di tutti i corpi. Spesso si è descritta la strage come una forma di repressione anti-ebraica: in realtà le vittime ebree furono 75 su 335. Per la maggior parte, i caduti furono capi della Resistenza. La polemica sui gappisti di via Rasella che non si sarebbero consegnati non ha fondamento: se si guarda alle biografie dei caduti, si scopre che erano tutti parte della stessa lotta. Il mausoleo delle Fosse Ardeatine è stato voluto da donne che si sono fatte carico del dolore e lo hanno trasformato in coraggio. Va riscoperto come luogo di Resistenza, non di martirio».
In precedenza, con “La guerra delle donne”, aveva ricostruito il ruolo delle donne nella lotta di liberazione.
«Per le donne, la lotta di liberazione ebbe un valore aggiunto: oltre alle “tre guerre” teorizzate da Claudio Pavone – guerra di liberazione patriottica, guerra civile, guerra di classe – le donne combatterono una guerra privata per riprendersi la libertà dopo che il fascismo le aveva condannate ed essere solo spose e madri. Parliamo di donne giovanissime che si ribellarono. Si ribellarono anche ai loro compagni di banda, che all’inizio mal sopportarono la presenza femminile. La Resistenza per le donne è stata una leva potentissima di emancipazione».
Quali strascichi ebbe, dopo il 25 Aprile, la guerra civile che si era combattuta in Italia?
«Strascichi infiniti. Ci fu una sorta di processo alla Resistenza: ancora oggi la lotta di liberazione è imputata di aver generato lutti e di aver addirittura scatenato una guerra civile. Nel secondo dopoguerra abbiamo avuto un problema di continuità dello Stato: interi apparati che avevano fatto carriera durante il fascismo – funzionari, dirigenti, personale dei ministeri, la stessa magistratura – conservarono il proprio posto. Ciò creò un problema di legittimazione della guerra partigiana: secondo quella magistratura, ad esempio, chi aveva preso parte ad azioni di guerra partigiana era automaticamente un criminale. Poi c’è un tema di discorso pubblico: attraverso rotocalchi, riviste scandalistiche, articoli di giornale, è stata portata avanti una vulgata anti-partigiana e anti-antifascista che ha avvelenato il dibattito».
Che ruolo giocò l’amnistia concessa nel 1946 dall’allora ministro della Giustizia Togliatti?
«L’amnistia mirava ad accogliere nella vita repubblicana e democratica anche coloro che avevano combattuto per la Repubblica Sociale Italiana, in nome dell’idea che, una volta finita la guerra, non ci fossero più nemici ma solo avversari. Si tende a dire che se l’epurazione del fascismo fallì, fu per colpa dell’amnistia. In realtà, quando l’amnistia venne emanata, l’epurazione era già fallita: le nubi della guerra fredda avevano iniziato ad addensarsi sul nostro Paese già prima della Liberazione. L’Italia fece un patto con l’ex Germania nazista in base al quale noi italiani non avremmo processato tutti i criminali di guerra, ma solo alcuni casi emblematici, altrimenti altri Paesi avrebbero potrebbero chiedere a noi l’estradizione di criminali di guerra italiani. A noi fece molto comodo, nel dopoguerra, dipingerci come vittime del nazionalsocialismo per evitare di fare i conti con il nostro passato. Il caso delle foibe è emblematico».
Ovvero?
«Celebrare il Giorno del Ricordo di per sé non sarebbe sbagliato, ma la storia di quella violenza politica di massa – che non fu pulizia etnica – iniziò negli anni Venti con il fascismo di frontiera, con i campi di internamento che noi costruimmo sul confine orientale, dove morirono decine di migliaia di civili».
Qual è la lezione più importante della Resistenza da tenere a mente oggi?
«L’idea di libertà. Di una patria che si incarna nella libertà e nella giustizia sociale. L’idea di un nuovo mondo in cui nazioni libere possano convivere pacificamente. Credo sia questo che resti come insegnamento oggi, in un mondo in cui purtroppo le guerre sono di nuovo fra noi e, ahimè, molti intellettuali esaltano la guerra. Tutto questo a poco a che fare con la Resistenza».
Si può fare un parallelismo tra la lotta di liberazione italiana e la guerra che gli ucraini stanno combattendo per difendersi dai russi?
«I parallelismi sono dei “diavoletti” che gli storici non dovrebbero mai seguire. Non sono d’accordo con il collega Alessandro Barbero quando afferma che oggi saremmo in una fase storica analoga a quella del 1914. Noi la democrazia l’abbiamo conosciuta e abbiamo conosciuto due guerre mondiali, mentre nel 1914 gli europei non sapevano che cosa fosse una guerra mondiale, né tantomeno la bomba atomica. Quanto alla guerra in Ucraina, ogni popolo aggredito ha diritto di difendersi, ma spesso si usa il termine “guerra di resistenza” per giustificare il riarmo: io penso invece che dovremmo iniziare a lavorare seriamente a un processo di pace duraturo».
È contraria, quindi, all’aumento delle spese militari previsto nell’Ue, Germania in testa?
«Non sono d’accordo con questa politica di riarmo. Sono favorevole a un piano di difesa, che è un’altra cosa: il Manifesto di Ventotene parla di una moneta unica, una difesa comune, una politica comune».
Chi è a favore del riarmo argomenta che l’Europa non potrà più contare sulla protezione degli Stati Uniti.
«Ma non c’è bisogno di riarmarsi! C’è bisogno di difendersi, che è un’altra cosa. Quando si costruiscono le armi, poi le si usano. Il grande sogno dell’Europa unita non era questo: era esattamente il contrario. Se gli Usa ci abbandonano, può essere l’opportunità per creare finalmente un’Europa federata».
Nel 2025 il fascismo c’è ancora?
«No, il fascismo per fortuna è morto e sepolto dal 1945. Ci sono, però, dei veleni che attraversano la storia d’Italia, delle ombre neofasciste e post-fasciste: penso alla stagione delle stragi, ma anche ai gruppi di estrema destra che fanno proseliti sul web seducendo giovani menti con parole d’ordine di violenza e di odio. Questo è un problema per la nostra democrazia, che però fortunatamente nel tempo ha saputo attivare i suoi anticorpi».