Licenziata perché in malattia faceva l’influencer (senza dirlo al capo)
Licenziata perché faceva la beauty influencer in malattia, scopriamo che cosa ha deciso il giudice spagnolo e perché la sentenza interessa anche l’Italia

Anche gli esiti delle dispute giudiziarie legate a rapporti di lavoro fuori confine possono costituire motivo di interesse per l’Italia. Il caso su cui ci soffermeremo è avvenuto in Spagna ed è finito all’attenzione del Tribunal Superior de Justicia de Castilla y León Alcuni mesi fa ha ribadito l’illegittimità di un licenziamento disciplinare inflitto a una dipendente.
Quest’ultima era accusata di violare le regole di diligenza e buona fede contrattuale, svolgendo l’attività di beauty influencer durante un periodo di malattia. Quali attività possono svolgersi durante il periodo di assenza dall’ufficio per ragioni sanitarie? È una domanda ricorrente anche in Italia e, proprio per questo, vogliamo parlare dell’originalità di una vicenda che – con contorni molto simili – potrebbe ripresentarsi anche da noi.
Il caso concreto e la violazione della buona fede contrattuale
Nel 2017 una lavoratrice spagnola ottenne un contratto a tempo indeterminato, divenendo madre quattro anni dopo. Alla fine del periodo di congedo di maternità previsto dalla legge spagnola, la donna domandò una riduzione dell’orario di lavoro e dal novembre 2023, per una diagnosi di ansia, beneficiò del congedo per malattia. La lavoratrice migliorò così le sue condizioni di salute, riacquistando la serenità necessaria alla ripresa dell’occupazione.
Tuttavia, a inizio 2024, arrivò la doccia fredda del licenziamento disciplinare, inflitto per una ragione. L’attività svolta sui social network – in particolare Instagram e TikTok – come promotrice di prodotti di bellezza, non fu gradita dall’azienda datrice.
Ritenne la dipendente colpevole di aver violato le più comuni norme della buona fede contrattuale, abusando della fiducia in lei riposta e del diritto al congedo per malattia. In generale, con l’espressione “buona fede contrattuale” ci si riferisce a un criterio di comportamento, richiesto durante l’esecuzione del contratto.
Prevista in Spagna come in Italia – all’art. 1375 del Codice Civile – la buona fede fa riferimento all’obbligo, per ambo le parti del contratto, di agire con lealtà, correttezza e rispetto reciproco, evitando comportamenti opportunistici o sleali che possano danneggiare l’altra parte.
L’incompatibilità delle attività di beauty influencer con il ruolo in azienda e il congedo per malattia
La violazione della buona fede contrattuale – come detto – è stata alla base del licenziamento per giusta causa: secondo il datore di lavoro la dipendente – nei video in cui faceva la beauty influencer – mostrava un comportamento positivo e propositivo. Quest’ultimo è stato ritenuto incompatibile con lo stato di malattia e – quindi – con l’esercizio del diritto al congedo di malattia.
La comunicazione del recesso unilaterale appariva all’azienda una sorta di atto dovuto, perché si segnalava che:
- le attività online di promozione e vendita erano simili a quelle del ruolo lavorativo ricoperto, ossia il ruolo di commerciale di prodotti di telefonia;
- nell’offerta di prodotti di bellezza di cui ai video su Instagram e TikTok, la donna appariva in piedi e in un comportamento che non lasciava pensare a un perdurante stato di indisposizione.
Anzi da ciò l’azienda trasse la valutazione dell’incompatibilità con lo stato di incapacità temporanea all’esercizio delle mansioni. Ecco perché nel comunicato alla donna compaiono queste parole:
La informiamo che tale comportamento costituisce una grave e colpevole violazione contemplata nell’articolo 54, comma d) dell’Estatuto de los Trabajadores, ossia la locale normativa sui rapporti di lavoro. Alla luce di questi fatti e in conformità con quanto stabilito dagli articoli 54 e 55 dell’Estatuto de los Trabajadores, procediamo pertanto al licenziamento disciplinare.
Seguì la contestazione in tribunale del licenziamento inflitto, con un esito che – come dicevamo all’inizio – sorprese l’azienda, apparendo significativo anche per possibili casi simili in Italia.
Le decisioni dei giudici spagnoli
In primo grado la donna ottenne il ribaltamento della decisione, perché la sentenza ritenne illegittimo il recesso. La reazione dell’azienda fu tentare la carta del successivo grado di giudizio: facendo appello all’art. 193 della Ley Reguladora de la Jurisdicción Social (LRJS) e alla presunta violazione degli artt. 54.1 e 54.2 d) dell’Estatuto de los Trabajadores in materia di licenziamento per violazione della buona fede contrattuale, il datore di lavoro impugnò la sentenza di primo grado.
Si sottolineava come la sua dipendente non avrebbe dovuto svolgere alcuna attività, neanche occasionale, che potesse potenzialmente condizionare o rallentare la guarigione.
Tuttavia, il Tribunal Superior de Justicia de Castilla y León, ha confermato l’esito del primo giudice. Non può infatti essere accolta la tesi per cui – durante il congedo per malattia – il dipendente è tenuto a non svolgere alcuna attività che – anche solo lontanamente – possa essere ragione di ostacolo alla ripresa del lavoro.
Sono i fatti di causa a provare che la donna non aveva violato la buona fede. Infatti, secondo questo giudice:
- non ricorreva alcuna simulazione della malattia, non essendo in discussione lo stato di incapacità temporanea ed essendo stata diagnosticata una forma di ansia;
- il mero svolgimento di attività di pubblicazione occasionale di brevi video, in ambito domestico o comunque in contesti tali da non pregiudicare il recupero delle energie psicofisiche, non ostacolava il ritorno in ufficio e non era in contrasto con la patologia dichiarata.
In sintesi, il comportamento della donna non evidenziava alcuna malafede o intento fraudolento e neanche la finzione di una malattia. Il giudice concluse per il rigetto del ricorso dell’azienda e per la mancanza di un legame, diretto e dimostrato, tra l’iter di guarigione dal disturbo di salute e l’attività virtuale di influencer. La lavoratrice non voleva né mentire, né ingannare la controparte del rapporto di lavoro. Non c’era alcuna prova a riguardo.
Che cosa cambia
Per il diritto spagnolo la vicenda costituisce un interessante precedente giurisprudenziale, ma – anche per l’Italia – si tratta di un caso che porta a riflettere. Infatti, dalla decisione del giudice iberico comprendiamo l’importanza di valutare volta per volta se un’attività extra-lavorativa possa realmente interferire con il processo di guarigione.
Da noi questa pronuncia potrà essere utilizzata come precedente “persuasivo”, ossia non vincolante ma capace di orientare argomentazioni difensive nei contenziosi in materia. E ciò anche perché, in ambo gli ordinamenti, il principio di buona fede contrattuale guida i rapporti di lavoro.
E in linea con quanto già stabilito dalla giurisprudenza italiana – ad esempio come abbiamo visto in questa decisione della Cassazione – non è automaticamente sbagliato svolgere attività durante la malattia.
La regola aurea è quindi quella che suggerisce di valutare i fatti caso per caso. Il giudice dovrà domandarsi se:
- l’attività sia oggettivamente incompatibile con la patologia;
- il dipendente abbia simulato la malattia o agito in malafede;
- ci sia prova concreta di un danno per il datore di lavoro.
Infine, la sentenza spagnola è interessante anche perché tocca un tema moderno, come quello dell’esposizione sui social durante l’assenza. Anche in Italia questo – almeno sulla carta – può costituire valido motivo di contestazione disciplinare, ma soltanto se l’azienda può provare un comportamento incoerente con la malattia o dannoso per l’immagine aziendale. Concludendo, la mera presenza online, anche come influencer, non basterà a giustificare un licenziamento disciplinare.