Libera, Pizzolungo e il silenzio dell’Antimafia: perché su quella strage non interessa indagare

Ci sono tante ottime ragioni per essere a Trapani con Libera il 21 marzo per la trentesima edizione della Giornata della Memoria e dell’Impegno dedicata alle vittime innocenti delle mafie, ma su tutte per me c’è il ricordo della strage di Pizzolungo. Una strage di quarant’anni fa: era il 2 Aprile del 1985. Una macchina […] L'articolo Libera, Pizzolungo e il silenzio dell’Antimafia: perché su quella strage non interessa indagare proviene da Il Fatto Quotidiano.

Mar 19, 2025 - 10:15
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Libera, Pizzolungo e il silenzio dell’Antimafia: perché su quella strage non interessa indagare

Ci sono tante ottime ragioni per essere a Trapani con Libera il 21 marzo per la trentesima edizione della Giornata della Memoria e dell’Impegno dedicata alle vittime innocenti delle mafie, ma su tutte per me c’è il ricordo della strage di Pizzolungo. Una strage di quarant’anni fa: era il 2 Aprile del 1985.

Una macchina era stata riempita di esplosivo e lasciata sul bordo della strada che ogni mattina era costretto a percorre un giudice, Carlo Palermo, con la sua auto blindata, seguita da una di scorta che blindata invece non era. Quel giudice doveva morire. Invece per una coincidenza spietata a fare da “scudo” alla macchina del giudice si parò una utilitaria che percorreva lo stesso tragitto e che la blindata del giudice superò proprio in corrispondenza dell’auto bomba. Morirono Barbara Rizzo e due dei suoi tre figli che avevano sei anni: Giuseppe e Salvatore Asta. Anche gli agenti di scorta al giudice subirono lesioni feroci, ma sopravvissero. Carlo Palermo ne uscì quasi indenne e da allora la sua vita è implacabile ricerca di verità.

Sarebbe giusto che la Commissione parlamentare antimafia dedicasse a questa strage una attenzione particolare, che decidesse di de-secretare alcune audizioni, di raccogliere gli atti, di approfondire e di offrire alla opinione pubblica italiana ed ai superstiti di quella mattanza un contributo di verità. Ma non lo farà, non può farlo.

Non questa Commissione presieduta dalla on. Colosimo, che è piuttosto impegnata a cancellare i fili che connettono le responsabilità di ambienti troppo vicini, troppo compromettenti, di un passato che non è passato mai e che è riuscito a diventare egemonico, tronfio di impunità e assetato di vendetta. Perché la strage di Pizzolungo è come il punto in cui si pianta il compasso che poi traccia un cerchio ampio, metà di là dove sta il prima della strage e metà di qua dove sta il dopo la strage.

Il cerchio disegnato dal compasso di Pizzolungo ha a che fare con l’esercizio criminale del potere politico che cerca e trova sponde nell’organizzazione mafiosa, ha a che fare con la ristrutturazione tragica del potere in Italia successiva al 1989, ha a che fare con quello che il governo Meloni e la Commissione Colosimo hanno deciso di non guardare e soprattutto di non far vedere.

Eccessivo? Macchè!

Bisogna soltanto avere la pazienza di farsi portare in giro dal cerchio disegnato dal compasso di Pizzolungo. Perché doveva morire Carlo Palermo? Nei primi anni ottanta Carlo Palermo a Trento aveva illuminato un sistema criminale internazionale che incrociava il traffico di morfina base, di armi, con il ruolo di organizzazioni terroristiche straniere e mafiose italiane, con i soldi che servivano a certi partiti ed a leader oggi in gran rispolvero, con ambienti massonici che lo avevano portato a rapportarsi con il magistrato trapanese Giangiacomo Ciaccio Montalto, che sarebbe stato ucciso all’inizio del 1983 proprio a Trapani e del quale idealmente Carlo Palermo volle raccogliere il testimone, chiedendo il trasferimento da Trento dopo aver già subito lo spossessamento della sua inchiesta ad opera di magistrati e ufficiali “di collegamento” che avrebbero avuto un brillante cursus honorum nei successivi ed attualissimi rivolgimenti repubblicani.

La mina del compasso passa così sul meridiano della strage, fatta da mafiosi corleonesi in parte individuati dai processi, ma resa possibile da una grave ed inescusabile negligenza dello Stato che offrì il magistrato, la sua scorta e la famiglia Asta su un “piatto d’argento” ed avanza sul dopo strage, cioè sulle indagini che da quel momento tra mille difficoltà alcuni investigatori ed alcuni magistrati portano avanti.

Questa seconda parte del cerchio potrebbe essere riletta attraverso la traiettoria di due valorosi poliziotti che si avvicinarono sapientemente alla verità e che per questo subirono attentati, minacce, ma poi anche, come al “solito” (in un Paese che normalizza mafia e potere mafioso), trasferimenti, de-mansionamenti, isolamenti: Rino Germanà e Peppe Linares.

Ed è in questo secondo tratto di cerchio che entra in scena (tra altri) l’ex potente Antonio D’Alì: senatore di Forza Italia dal 1994, sotto segretario all’Interno nei governi Berlusconi tra il 2001 ed il 2006, oggi in carcere a scontare una condanna per concorso esterno, in religioso silenzio come i suoi sodali di partito cui è toccata la medesima sorte. Nel 1985, l’anno della strage, D’Alì però non era ancora senatore, ma direttore della banca di famiglia (il nonno omonimo aveva fatto un passo indietro perché risultato iscritto alla P2), la Banca Sicula nella quale trova impiego Salvatore, uno dei figli di don Ciccio Messina Denaro, del quale, a detta proprio di Rino Germanà, era notoria la caratura criminale mafiosa.

Pensate che Germanà questa cosa la racconta a Non è l’arena di Giletti nel marzo del 2023: Giletti correva ancora veloce, sulle ali della profezia di Baiardo, forse senza vedere il muro che gli si parava davanti e contro il quale si sarebbe temporaneamente schiantato un mese dopo con lo stop alla trasmissione imposto da Cairo. No: questa Commissione Antimafia non può guardare nemmeno dentro questo pozzo, c’è troppo nero, striato d’azzurro.

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