Leopardi, il ribelle incompreso che aveva ragione sul mondo
Nel vodcast Il Piacere della Lettura, lo scrittore Antonio Moresco rivela il suo legame con Leopardi e attacca il conformismo: “La letteratura deve disturbare, non consolare”

C'è una strana, dolorosa ironia nella storia della letteratura: i grandi, spesso, diventano tali solo dopo essere stati ignorati, osteggiati, ridicolizzati. I loro contemporanei non li capiscono, li emarginano. E mentre il tempo, soltanto lui, ne rivela il genio, loro muoiono spesso incompresi, a volte sconfitti, sempre soli. Pensiamo a Kafka, che voleva che i suoi manoscritti fossero distrutti. A Van Gogh, che non vendette un solo quadro. A Leopardi, bersagliato da critiche, irriso per il suo aspetto, travisato nella sua visione. È anche da questo abisso temporale, tra incomprensione e gloria, che nasce Lettera d’amore a Giacomo Leopardi (Solferino), il libro che Antonio Moresco ha raccontato nel vodcast Il Piacere della Lettura, con una voce appassionata e ferita di chi conosce bene che cosa significhi essere fuori dal coro.
“Mi sono innamorato di Leopardi in un momento difficile della mia giovinezza” racconta Moresco, “è stato l’amico che ti dice la verità, quella che gli altri non vogliono o non sanno dirti.” Non è una biografia né un saggio accademico, ma una lettera. Una forma fluida, amorosa, intensa, scelta per non sezionare Leopardi come un reperto, ma per viverlo, per restituirgli il corpo e il fuoco.
Leopardi, per Moresco, non è solo il poeta di A Silvia o de L’Infinito, è un pensatore insurrezionale, scomodo ieri come oggi, che ha smascherato le illusioni del progresso e del dominio dell’uomo sulla natura. In un tempo in cui si rimuove il male anche dalle favole, Moresco lo difende: “Leopardi diceva che il mondo non è fatto per l’uomo. Questo è il suo pensiero potentissimo, non antropocentrico. E oggi, tra crisi ecologiche e disastri, aveva ragione lui”.
Come Leopardi, anche Moresco ha conosciuto l’esclusione. Quindici anni di rifiuti da parte degli editori, poi le critiche feroci, le etichette, le stroncature. E Moresco non risparmia giudizi al mondo della cultura, definendolo retorico, conformista, spesso più preoccupato di apparire che di dire qualcosa di vero. “Il politicamente corretto in letteratura è mostruoso. Gli scrittori devono mostrare anche il male, devono attraversare tutta la vita”. E aggiunge: “Uno scrittore deve essere divisivo, se non lo è, è pacificato con lo spirito del tempo e non serve a nulla.” E proprio per questo sente vicino Kafka, Van Gogh, Emily Dickinson: fratelli e sorelle in rivolta, voci che non si sono piegate, nemmeno nella fragilità.
Non fragile, ma “gretta, clericale, fratricida” è definita, invece, l’Italia. Un Paese in cui il potere culturale spesso silenzia invece di ascoltare, respinge invece di accogliere. Un Paese dove la democrazia, come ammoniva lo stesso Leopardi, può arrivare a suicidare se stessa. E in questo mondo in cui la democrazia sembra minacciata proprio da chi dovrebbe proteggerla, la voce di Moresco suona come un campanello d’allarme. Non dà risposte facili, ma formula le domande che contano. E nel farlo, continua a essere — per fortuna — uno scrittore scomodo.
Perché la letteratura non serve a tranquillizzare, ma a svegliare. E se oggi possiamo ancora leggere Leopardi con occhi nuovi, è anche grazie a chi, come Moresco, ha scelto di non smettere di parlare con lui. Anche quando il mondo sembra girarsi dall’altra parte.