Il deserto del Gobi e la leggenda del verme della morte Nel cuore inospitale del
deserto del Gobi, tra le distese di
sabbia rossa battute dal vento, sopravvive una delle leggende più inquietanti e affascinanti della
criptozoologia asiatica: quella del
verme della morte mongolo, noto localmente come
Olgoi-Khorkhoi. Il nome, che significa letteralmente “
verme intestinale”, evoca immediatamente l’aspetto che gli viene attribuito: un essere vermiforme, lungo circa
60 centimetri, di un rosso vivo e privo di occhi o aperture visibili. Secondo le testimonianze tramandate da generazioni di nomadi
mongoli, questo
essere sotterraneo vivrebbe nascosto sotto le dune e sarebbe visibile solo durante le rare tempeste di sabbia, quando emergerebbe per spostarsi rapidamente da un punto all’altro del deserto. La sua comparsa viene associata a
morte immediata, causata – secondo le voci – da
scariche elettriche, secrezioni tossiche o addirittura
uno sguardo letale.
Un enigma tra mito e scienza Malgrado la popolarità della leggenda,
nessuna prova scientifica dell’esistenza del verme è mai stata raccolta. La sua fama è cresciuta soprattutto dopo la pubblicazione del libro
On the Trail of Ancient Man (1926) dell’esploratore americano
Roy Chapman Andrews, che riferì delle storie raccolte dai locali durante le sue spedizioni paleontologiche nel Gobi. Sebbene lui stesso non abbia mai visto la creatura, descrisse dettagliatamente le testimonianze dei nomadi, considerandole curiose ma prive di fondamento. Tuttavia, negli anni successivi, numerosi
criptozoologi e curiosi hanno cercato prove dell’esistenza del verme. Il biologo
Richard Freeman, membro del Centre for Fortean Zoology, ha condotto
spedizioni in Mongolia a partire dagli anni Duemila, raccogliendo resoconti orali che confermavano la descrizione del mostro:
rosso scuro, liscio, con la capacità di emettere una sostanza velenosa o di folgorare a distanza. Ma, ancora una volta,
nessun esemplare vivo o morto è mai stato catturato, fotografato o esaminato.
Possibili spiegazioni zoologiche La descrizione del
verme della morte ha suscitato l’interesse anche di zoologi, che hanno ipotizzato si possa trattare di
animali reali mal interpretati. Alcuni suggeriscono che la leggenda possa essere nata dall’avvistamento di
rettili sotterranei o
larve giganti appartenenti alla fauna endemica del Gobi. Un’ipotesi plausibile riguarda alcuni tipi di
anfisbeni, rettili simili a vermi che vivono sottoterra e possono raggiungere dimensioni considerevoli. Altri propongono che possa trattarsi di un
tipo di serpente non ancora classificato, la cui pelle riflette in modo peculiare la luce del sole filtrata dalla sabbia. L’idea del veleno letale potrebbe invece derivare da
errori percettivi dovuti alle condizioni estreme del deserto: caldo intenso, disidratazione e panico possono portare a deliri e allucinazioni. Una delle spiegazioni più citate è quella del
fenomeno triboelettrico, secondo cui alcuni movimenti nella sabbia potrebbero causare
accumuli di cariche elettrostatiche. Questo effetto è reale e documentato in ambienti desertici, ma l’idea che possa produrre scariche capaci di uccidere è considerata
altamente improbabile dalla comunità scientifica.
Il ruolo della cultura e della paura Il deserto è da sempre luogo di leggende, e il
Gobi, uno degli ambienti più
ostili del pianeta, non fa eccezione. In un contesto di sopravvivenza estrema, le narrazioni orali assumono la funzione di
spiegare l’inspiegabile, ma anche di
trasmettere avvertimenti tra le generazioni. L’Olgoi-Khorkhoi, in quest’ottica, potrebbe rappresentare
una forma di monito contro l’imprudenza: evitare luoghi sconosciuti, non avventurarsi da soli, restare vigili durante le tempeste. Alcuni etnologi, come
Dr. Karl Shuker, hanno suggerito che il verme possa rappresentare
una personificazione della morte improvvisa, frequente tra i viaggiatori del Gobi, spesso colpiti da disidratazione, fulmini, o incontri con animali velenosi come lo
scorpione giallo o la
vipera delle sabbie.
Il fascino duraturo del criptozoologico Il caso del verme delle sabbie mongolo rimane uno dei
più emblematici misteri non risolti del panorama criptozoologico. A dispetto dell’assenza di evidenze fisiche, continua a stimolare l’immaginazione di
ricercatori, documentaristi e scrittori. La sua storia è stata raccontata in
documentari della BBC, in episodi di
Animal X, e in pubblicazioni internazionali come
National Geographic e
Scientific American, che hanno esplorato il fenomeno nel contesto più ampio delle leggende desertiche. La figura dell’Olgoi-Khorkhoi ha ispirato anche numerosi elementi della
cultura pop, comparendo in
romanzi di fantascienza, giochi di ruolo, videogiochi e perfino in una delle stagioni di
X-Files, rafforzando il suo status di
creatura mitica a metà tra il biologico e il soprannaturale.
Un enigma che resiste al tempo Nonostante decenni di ricerche, spedizioni e ipotesi, il verme della morte rimane
un’ombra nella sabbia, un racconto che sopravvive più per la forza della narrazione che per i dati concreti. Come molte leggende radicate in luoghi remoti, l’Olgoi-Khorkhoi affonda le sue radici nel
timore collettivo dell’invisibile, nella difficoltà dell’uomo di accettare ciò che non può controllare. In un’epoca in cui
quasi ogni angolo del pianeta è stato mappato, il mistero di una creatura letale che si muove sotto le
sabbie rosse del Gobi, invisibile ma presente nei racconti dei pastori e nelle notti senza luna, rappresenta forse
l’ultimo baluardo del meraviglioso, della
paura ancestrale, e del
bisogno umano di credere nell’incredibile.
Il mistero del verme delle sabbie mongole: leggenda o creatura reale?