Il dibattito sul congresso Pd. Orlando: “Ipotesi da non escludere”
L’ex ministro, leader dell’area di sinistra Dems: “Il mondo è cambiato con Trump, serve una riflessione. Il nostro pluralismo interno è espressione di uno scenario che non c’è più. Ma nessuna resa dei conti”

Roma, 3 maggio 2025 – Onorevole Andrea Orlando, leader della sinistra Dems, chiamare il Pd a congresso nel 2026 dopo le elezioni regionali sarebbe un’ipotesi così peregrina?
“Non mi sento di dire che l’ipotesi possa essere esclusa. È una discussione che dobbiamo fare insieme. Ma mi pare evidente l’esigenza di riflessione comune su quel che sta accadendo nel mondo”.
Tanto che il Pd si è diviso in Europa sul piano di riarmo...
“Lo vedrei più come effetto che come causa. Il riflesso di posizioni diverse sul ruolo dell’Europa e della sinistra europea e dell’Occidente che si sono approfondite nel momento in cui la politica di Trump ha acutizzato la crisi dell’atlantismo, del multilateralismo, della globalizzazione come l’avevamo conosciuta. Un processo già in corso con Biden e che Trump ha fatto deflagrare in modo clamoroso e drammatico, cui occorre rispondere elaborando punti di sintesi, non limitandosi a prenderne atto”.
Rispetto alla convergenza tra il Ppe e i conservatori di Giorgia Meloni, certo europeismo a priori in nome del cordone sanitario contro le destre rischia di condannare a un ruolo ancellare?
“Il Ppe sta certo giocando su due tavoli. Ma c’è poi un punto cruciale. L’Europa è la sola risposta possibile alla crisi ecologica, al capitalismo fuori controllo e le diseguaglianze crescenti. Ma rischia di non essere sufficiente. È una discussione da fare anche per rilanciare una riforma degli assetti istituzionali dell’Unione. Ci chiediamo troppo poco se questa Europa sia in grado di fronteggiare le sfide o se un’impostazione ancora legata a un impianto neoliberista, riluttante a individuare nuovi strumenti di lotta alle disuguaglianze, non favorisca le destre, che alimentano la crescita di quelle disparità e ci lucrano elettoralmente. Il Pd può favorire una discussione su questo nel campo del Pse e delle altre forze progressiste del mondo – al governo in Africa e Asia o che all’opposizione delle destre in Paesi che esercito un nuovo protagonismo, ma con cui l’Ue non dialoga abbastanza; oltre agli stessi dem Usa – per evitare di recludersi in un concetto di Occidente a repentaglio di anacronismo”.
In Italia, invece, si sta coagulando una nuova sinistra ex Ds a sostegno della segreteria per fare i conti con la minoranza riformista?
“Non credo sia un problema di appartenenze del passato. Mi fa sorridere sentir parlare di resa dei conti interni. I conti vanno fatti con una realtà che sta cambiando molto più rapidamente di quanto non potessimo immaginare anche all’ultimo congresso”.
La minoranza preferirebbe un’assemblea nazionale dopo i referendum e prima delle regionali...
“Un’assemblea è un passaggio sicuramente utile, ma non risolverebbe il problema. Il nostro pluralismo interno è espressione di uno scenario che non c’è più. Un nuovo congresso, sia tematico che complessivo, o addirittura una sede aperta anche a soggetti esterni, a mio avviso potrebbe avere un carattere diverso: non limitandosi a replicare piattaforme pregresse, per offrire una risposta collettiva e nuova a questo passaggio d’epoca che stiamo vivendo”.
In Germania il patto tra Spd e Cdu fissa il salario minimo a 15 euro, mentre qui il Pd è fermo a 9 e va in ordine sparso ai referendum che rischiano a maggior ragione il quorum...
“È chiaro che 9 euro siano un passo minimo essenziale ma non risolutivo, anche per arginare l’esodo verso l’estero di molti giovani. In una fase di inverno demografico, diventa essenziale il rilancio della domanda interna per rispondere alla de-globalizzazione. L’inerzia del governo su questo è gravissima. Il quorum ai referendum non è solo un problema per la Cgil e il Pd, ma per una democrazia sempre più a rischio ‘bassa intensità’, come ha avvertito il capo dello Stato. In questo contesto i referendum non si pongono come rivincita rispetto al Jobs act, ma interrogano se l’Italia possa continuare a competere solo svalutando il lavoro come accaduto per molto tempo”.