Educazione alla felicità: coltivare il benessere come pratica quotidiana

Il 20 marzo si celebra la Giornata Internazionale della Felicità. L'importanza di imparare a essere felici giorno per giorno

Mar 20, 2025 - 14:11
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Educazione alla felicità: coltivare il benessere come pratica quotidiana

Simbolico inizio di una stagione nuova, più colorata e dolce, il 20 marzo, equinozio di primavera, in tutto il mondo si celebra la Giornata Internazionale della Felicità, stabilita a partire dall’anno 2013 dall'Assemblea generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.

La felicità è un diritto. Tuttavia questa consapevolezza, semplice e doverosa, appare ancora concetto difficile e finisce, spesso, per perdersi nel senso di frustrazione dilagante che sembra permeare molto di ciò che ci circonda. Come sottolineato dall’Onu, una delle motivazioni dietro l’istituzione della giornata mondiale è che la felicità fa parte degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile: è indispensabile per pensare il futuro.

Se fin dall’antichità si riflette sul tema della felicità e su che cosa essa sia, oggi filosofi, psicologi e neuroscienziati concordano sul fatto che non si possa definire la felicità semplicemente il risultato di circostanze fortunate. La felicità è una competenza e come tale può (deve!) essere allenata. Perché la felicità si sviluppa nel tempo abbracciando la nostra crescita a livello individuale e collettivo, senza poter essere distinta dal viaggio esistenziale e dalle consapevolezze raggiunte momento per momento, anno dopo anno. La teoria dell'Happygenetica: “La felicità è una cura naturale”

L’andamento della felicità nel corso della vita

L’economista canadese John F. Helliwell, il cui lavoro ha contribuito alla redazione del World Happiness Report, spiega che la felicità è una questione complessa e mostra di essere influenzata da vari fattori, fra cui il supporto sociale, il reddito, la salute, la libertà, la generosità, tanto da variare a seconda dell’età e delle varie fasi della vita.

La felicità seguirebbe, generalmente, una curva a "U" nel corso della vita. Secondo la teoria della “curva a U” i livelli di benessere in genere tendono a essere più elevati nella prima fase della vita, durante infanzia e giovinezza: raggiungono il punto minimo intorno ai 45-50 anni, per poi risalire nella terza età. La tendenza può variare in base al contesto culturale e geografico, oltre alla storia personale.

Uno dei nodi che secondo gli esperti dimostra di avere un ruolo chiave nel superamento della fase di crisi è il modo in cui riusciamo a “metabolizzare”, digerire e superare i condizionamenti dell’infanzia, oltre alle pressioni sociali, che rischiano di appesantire e confondere rispetto ai nostri bisogni reali e autentici.

Che cosa significa educare alla felicità?

Vivere in un ambiente sociale felice significa poter accedere all’istruzione e a opportunità lavorative adeguate, veder soddisfatti i propri bisogni, poter esprimere liberamente la propria creatività: possibilità che in diversi luoghi al mondo vengono ancora negate.

A livello personale la felicità sembra sfuggire continuamente, tuttavia su questo sembra avere implicazioni importanti anche l’interpretazione che a livello sociale le attribuiamo. Consideriamo l’essere felici come un obiettivo, un traguardo associato con gli aspetti più positivi della vita. In realtà, per ribaltare questa visione c’è bisogno di un profondo cambiamento nello sguardo.

La felicità non è solo una condizione emotiva fugace, bensì un percorso da coltivare attraverso l’educazione e la consapevolezza. Si tratta di una considerazione che riguarda il concetto stesso di resilienza: essere resilienti significa porre l’attenzione sulle lezioni di vita che dagli eventi, di volta in volta, possiamo trarre anziché concentrarsi unicamente sugli aspetti negativi. Un vero e proprio allenamento.

Se desideriamo uscire dal problema abbiamo bisogno di focalizzarci sulle soluzioni. L’allenamento alla resilienza ha un impatto anche sul modo in cui, nelle diverse fasi della vita, raccontiamo a noi stessi la nostra storia e metabolizziamo le difficoltà.

L’educazione alla felicità, infatti, si basa sull’idea che il benessere non dipenda esclusivamente da fattori esterni: a fare la differenza è un allenamento nel modo di pensare la vita.

Martin Seligman, pioniere della psicologia positiva, ha identificato cinque pilastri essenziali per il benessere: emozioni positive, coinvolgimento, relazioni significative, senso di realizzazione e significato (modello PERMA). Secondo questa prospettiva, l’educazione alla felicità non si limita a insegnare a essere felici, ma fornisce strumenti per affrontare le difficoltà con maggiore resilienza e consapevolezza.

Felicità e filosofia: da Aristotele a oggi

Il concetto di felicità ha radici antiche nella filosofia. Anticamente, il concetto aristotelico di eudaimonia vedeva la felicità come una forma di realizzazione personale e un processo di crescita da sviluppare grazie all’esercizio della virtù e delle proprie capacità.

Filosofi greci come come Seneca ed Epitteto, secoli fa, sottolineavano l’importanza della gestione delle emozioni e del distacco dalle circostanze esterne per raggiungere la serenità interiore. Oggi le teorie degli antichi prendono nuova linfa vitale dagli studi di mindfulness e dalle nuove ricerche sul cervello.

Le neuroscienze hanno dimostrato che il cervello può essere allenato alla felicità attraverso pratiche specifiche. Secondo gli studi del neuroscienziato Richard Davidson, coltivare emozioni positive come la gratitudine e la gentilezza porta a una maggiore attivazione delle aree cerebrali associate al benessere. Davidson ha evidenziato che la gentilezza amorevole rafforza le connessioni tra i circuiti cerebrali legati alla gioia e alla felicità e la corteccia prefrontale, una zona critica per la guida del comportamento.

Anche le piccole abitudini quotidiane felici possono influire sulle nostre giornate: svilupparle fin da bambini costituisce una risorsa fondamentale in grado di sostenere negli anni. Per esempio, la scrittura e il disegno come modi per esprimere le proprie emozioni ed elaborare il quotidiano, oppure sviluppare un hobby: dal giardinaggio al cucito non è il “cosa” a fare la differenza, bensì il “come”, un concetto che si avvicina all’ikigai giapponese, ovvero “ciò che ci fa sentire ancora vivi”. In fondo, si tratta di una consapevolezza profondamente connessa con l’educazione alla felicità: accorgerci di ciò che ci sentire ancora vivi.

Uno degli errori più comuni è considerare la felicità come un traguardo da raggiungere, piuttosto che come un modo di vivere. Secondo il filosofo Alain de Botton, l’idea moderna della felicità spesso porta a frustrazione, perché si basa su standard irraggiungibili e su un ideale di successo imposto dalla società. In realtà, il benessere deriva dalla capacità di apprezzare il presente e di trovare significato nelle esperienze quotidiane, anche nelle difficoltà.

L’educazione alla felicità non è un metodo per eliminare la sofferenza, ma un percorso per affrontare le grandi e piccole infelicità che fanno parte dell’esistenza con uno sguardo in grado di abbracciare. Integrare, anche i fatti e le circostanze difficili da accettare, è la grande sfida.