Donald Trump e la forza del destino

Servi dei padroni Al giorno d’oggi essere servi è diventata una cosa pesante quanto mai prima. Uno si trova un padrone, lo riverisce, gli “spiccia casa”, per così dire, e […]

Mar 12, 2025 - 10:43
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Donald Trump e la forza del destino

Servi dei padroni

Al giorno d’oggi essere servi è diventata una cosa pesante quanto mai prima. Uno si trova un padrone, lo riverisce, gli “spiccia casa”, per così dire, e soprattutto, gli evita di fare il lavoro pesante, il lavoro sporco, perché se lo accolla tutto lui. Si aspetterebbe quindi, se non fiumi di denaro e di elogi, almeno un contentino, una pacca sulla spalla. Macché: oggi ti prosciugano e poi ti licenziano come si faceva ai tempi di Mozart, ossia con un bel calcio nel chitarrino. E ti chiedono anche indietro i soldi. Guardate il povero Zelensky e soprattutto il suo sventurato popolo. Uno può dire di tutto al Manifesto, ma non può accusarlo di sbagliare le prime pagine: “Usa e getta” è il titolo perfetto, data la situazione.

E che dire dei servi di casa nostra? Guardate il nostro ineffabile presidente del consiglio, inciampato nella transizione dal padrone vecchio a quello nuovo. Se prima berciava “Kiev fino alla fine!” ora dovrà sibilare a denti stretti “E’ la fine di Kiev!”, e fare anche finta di non averlo detto. E guardate il suo vice, il Capitano (!) che guida la Lega e la cordata del Ponte e che più Trump parla di dazi, più lo elogia: poi se la vedrà lui con quel “Nord produttivo” che dovrebbe essergli tanto caro.

Sto buttandola troppo sul ridere? Forse sì: ma troppo scoperta è qui la natura intima del nazionalismo della destra italiana, che, come fece il fascismo, deve immediatamente gettarsi nelle braccia di un padrone ben più forte e feroce, perché ciancia di “ruolo decisivo” e di “grandi opportunità” senza aver prima costruito (e anzi dopo aver reso impossibile) il compromesso sociale e la conseguente base produttiva capaci di dare effettiva sostanza alla declamata sovranità.

Ci sono poi gli altri servi, quelli che litigano (per ora) col nuovo capo solo perché hanno nostalgia di quello vecchio. Prigionieri di se stessi e della retorica che hanno sciorinato per giustificare l’autolesionistica “operazione Ucraina” la sedicente sinistra e i sedicenti gruppi dirigenti europei devono addirittura ostacolare il possibile (ma tutt’altro che prossimo) accordo di pace e parlare di scontro ad oltranza. Come ammettere, infatti, che la guerra che si doveva e si poteva assolutamente vincere è stata in realtà persa? Ma dell’Unione si dirà dopo, mentre dell’inqualificabile sinistra liberale qui è meglio tacere.

Un Nobel per the Donald?

Per restare in tema di servilismo, il sullodato Capitano  ha anche proposto di conferire a Trump il Nobel per la pace (idea non meno peregrina di quella di chi ha voluto il Nobel per Obama). Ovviamente durante la cerimonia di conferimento sarà proiettato il simpatico filmetto su Gaza che ci ha così tanto deliziato. Hanno fatto un resort, e lo chiamano pace.

Senza giungere a queste boutade, non pochi sono comunque coloro che, non servi ma certamente subalterni, oltre a pensare giustamente che l’avvento di the Donald apra, come si dice nel nostro gergo, contraddizioni nel fronte avversario (però poi bisogna saperle utilizzare, le contraddizioni), si illudono anche che esso, volutamente o di fatto, sia un passo avanti verso un positivo riconoscimento del multipolarismo. Trump pacificatore, insomma: cosa che inizierebbe a mostrarsi proprio con l’atteggiamento sulla questione ucraina.

Mi permetto di dissentire da questa benevola interpretazione.

Tanto per restare all’Ucraina la pace è resa assai difficile, come è stato recentemente notato[1], proprio dal fatto che Putin al momento ha vinto, e quindi Trump non può concedergli di vincere troppo. Non ci si faccia ingannare dagli insulti a Zelensky e dal fatto che Trump addossa a quest’ultimo quasi tutte le colpe del conflitto, mettendo così di fatto la sordina alle critiche a Biden. Prendersela con Zelensky non significa ammettere che Putin aveva a suo modo ragione, significa chiamarsi fuori dalle responsabilità, scaricare sul “modesto comico e dittatore” la colpa della guerra e della sconfitta per allontanarla dagli Stati Uniti e in qualche modo anche da Trump stesso, che a suo tempo ha generosamente armato Zelensky . La mia è un’interpretazione erronea? Può darsi, ma la sostengono  motivazioni oggettive: gli Stati Uniti si reggono sul credito che il resto del mondo concede loro, e tale credito è garantito dalla forza politica e militare di Washington. Se, dopo la ritirata afghana, si palesa e si confessa anche una ritirata ucraina, la garanzia comincia a scricchiolare. Per questo la colpa deve essere affibbiata certamente a Sleepy Joe, ma soprattutto a chi americano non è, e cioè alle vittime. E per questo la pace non potrà essere troppo favorevole a Putin e dovrà essere tale da consentire comunque una qualche presenza  dell’occidente su quei martoriati territori (o a ridosso di essi): e quindi mantenere comunque vive le cause profonde del conflitto.   

Cambio di strategia

In ogni caso, che Trump sia tutto tranne che un pacificatore è mostrato da ben altro ancora. E per capirlo dobbiamo per prima cosa comprendere il senso della precedente presidenza Trump. Per farlo ci baseremo su uno studio poco noto in Italia, dovuto a un gruppo di ricercatori olandesi che da anni conduce una vasta analisi empirica sul policy making statunitense, considerando, tra l’altro, le diverse e numerose reti sociali in cui sono coinvolti i decisori[2].

Orbene, secondo questi ricercatori la prima presidenza Trump rappresenta davvero una rottura rispetto all’“open door globalism” che ha ispirato la politica statunitense da Clinton a Obama. Quella che, conti alla mano, è stata – alla faccia di ogni populismo – la più ricca compagine presidenziale e ministeriale mai insediatasi alla Casa Bianca, non recide certamente di colpo i legami col capitale finanziario, ma di per sé rappresenta frazioni di capitale mai salite direttamente al potere e orientate in buona misura al mercato interno. Parliamo del settore immobiliare e dei grossi conglomerati guidati da grandi imprese familiari (tra cui quelle dello stesso Trump e figlia) connesse a numerosissime altre imprese, piccole e medie, operanti in vari settori. La squadra di Trump si rende a un certo punto indipendente dai numerosi e consolidati network (fatti di lobbisti, think-tank e personale politico-amministrativo) da sempre protagonisti della politica estera Usa: e se durante il primo mandato non giunge a sottomettere questa parte del deep state, riesce comunque a iniziare una notevole svolta strategica.

Infatti l’open door globalism considerava l’espansione esterna del capitale Usa come condizione del benessere interno, propugnava l’apertura del mercato mondiale e rivendicava la superiorità valoriale americana, anche per giustificare i calcioni (ossia le operazioni militari) con i quali venivano aperte quelle doors che non volevano aprirsi da sole. Trump invece, almeno nelle intenzioni, inverte la relazione tra espansione esterna e prosperità interna: la prima non scompare, ma diviene funzionale alla seconda, ed è la crescita nazionale a divenire condizione dell’egemonia mondiale. Mentre all’interno predica e pratica il massimo di liberismo e di tagli fiscali, Trump, giustamente ossessionato dal pesante passivo Usa nei conti con l’estero, interessato soprattutto a ridurre l’import a beneficio dell’export, da vita all’esterno a una sorta di nazionalismo mercantilista, non autarchico come il nazionalismo più duro, ma non per questo orientato al free market. Anzi nella sua idea i rapporti economici con l’esterno non vanno gestiti con una logica win-win che porta benefici a tutti, ma come un gioco a somma zero.

Ed è proprio questo a rendere altamente conflittuale, e tutt’altro che pacificatrice, la strategia trumpiana. La relativa attenuazione dell’espansione del capitale e dei correlati interventi militari non comporta affatto la fine, ma soltanto la metamorfosi dei conflitti, Il riconoscimento di fatto della pluralità degli attori mondiali non significa abbandono della lotta per il dominio, anzi. E la competizione “puramente“ economica su cui punta Trump non è affatto sinonimo di pace. E ciò non soltanto perché l’economia capitalista, anche quando orientata alla “leale” concorrenza, non è mai semplicemente economia, essendo anche e soprattutto una forma di riproduzione di rapporti gerarchici tra classi e tra stati; ma soprattutto perché il prevedere relazioni economiche volutamente a somma zero  è una sorta di dichiarazione di guerra: è dare ragione all’efficace sintesi di Daniel Bell, secondo cui “l’economia è la prosecuzione della guerra con altri mezzi[3]. Per questo, a parere degli studiosi olandesi, non c’era nulla di irenico nella prima amministrazione Trump. E c’è da attendersi, aggiungo io, che l’attuale esperienza sia ancora più aggressiva, visto il numero e la qualità dei capitalisti che si sono aggiunti all’impresa e visto il programma di liquidazione del deep state appena avviato. Programma che, è bene essere chiari, non solo non liquiderà molti dei policy maker storici (non foss’altro perché si tratta spesso di potentissimi soggetti privati, ossia di law firms e think-tank le cui grandi capacità di condizionamento non sono eliminabili per decreto), ma soprattutto porterebbe, se realizzato, alla costruzione di un altro deep state, probabilmente meno dotato di capacità di mediazione di quello precedente, in quanto espressione più diretta delle oligarchie del profitto.

E’ quindi sciocco, perché autolesionista, lodare Trump per la sua supposta franchezza, considerarlo magari una simpatica canaglia perché dice apertamente quel che gli altri nascondono dietro un’insopportabile ipocrisia. L’ipocrisia indica quanto meno un certo rispetto o considerazione dell’altro. Nelle relazioni internazionali, poi, essa è uno dei principali ostacoli alla guerra. Nell’azione di Trump invece la sincerità significa fare tutto quello che si vuole con le mani assolutamente libere; lottare per la supremazia con pochissime mediazioni, abbandonare qualunque residuo di multilaterialismo. Non è, quindi, fare in maniera più scoperta la stessa cosa che facevano gli altri: è fare un’altra cosa, più direttamente aggressiva (e, da subito, più aggressiva proprio nei confronti degli alleati). Non una sospensione dell’imperialismo, ma una sua particolare modalità.

Già, l’imperialismo. Si ha l’impressione che nei confronti di Trump alcuni commettano un errore speculare a quello da altri compiuto nell’interpretazione della defunta globalizzazione. Questa apparve a troppi come trionfo del doux commerce, ossia delle relazioni puramente economiche e comunque pacifiche, sull’orrido bellicismo degli stati nazionali, dati oramai per defunti: non si volle vedere il lato intrinsecamente antagonista e squilibrante delle relazioni economiche capitalistiche, né il legame inevitabile tra l’espansione economica e quella militare (Balcani, Iraq, Libia, Afghanistan e infine Ucraina). Insomma nell’interpretare la globalizzazione venne completamente rimossa la nozione stessa di imperialismo come unione della logica gerarchica dell’economia e della logica gerarchica degli stati, come scontro fra potenze fatte da un intreccio inestricabile di forza economica e politica: e non si volle vedere che, anche a prescindere dalle guerre guerreggiate, la “semplice” espansione economica, produceva squilibri e preparava gravi conflitti. La stessa rimozione si registra spesso oggi, se non altro implicitamente, in chi sostiene che la seconda presidenza Trump sia in qualche modo “pacifista”, magari perché meno legata al capitale finanziario, quindi meno espansionista e militarista, e più orientato alla competizione “meramente” commerciale. E’ come se, mentre la globalizzazione veniva interpretata come fase postimperialista, il mercantilismo trumpiano venisse ora interpretato come ritorno a una fase preimperialista, difensiva e più attenta a costruire equilibri tra potenze che a imporre un’egemonia.

La forza del destino

Ma dall’imperialismo non si torna indietro: esso è il destino del capitalismo. La crescita smisurata della centralizzazione del capitale porta inevitabilmente a una sovraccumulazione (e finanziarizzazione) del capitale stesso, che inevitabilmente spinge a trascendere i confini nazionali per conquistare, economicamente e quindi militarmente, ulteriori spazi di investimento e profitto. Questa presenza debordante del capitale finanziario rende del tutto vetusta la distinzione finanziario/produttivo a cui spesso facciamo riferimento. Tutti i poli industriali di rilievo mondiale sono intimamente finanziarizzati. La seconda amministrazione Trump, ancor più della prima, è composta o supportata da numerosi fondatori, proprietari o comunque rappresentanti di aggressivi hedge fund, venture capital e simili. Così come ben più della prima è composta e supportata da molti capitalisti “industriali” (e quindi anche finanziari), e in particolare da quelli dei più innovativi (e militaristi) settori tecnologici. L’opposizione rilevante, qui, non è quella tra finanzieri e capitani d’industria, ma quella tra i capitalisti ritenuti utili allo sviluppo interno e quelli ritenuti invece dannosi; e gli stessi investimenti diretti all’estero sono ostacolati solo se e quando danneggiano la sicurezza nazionale: cosicché l’idea di Musk e dei suoi simili di investire in Europa per divorare big data e inserirsi nel riarmo continentale (motivo principale dell’appoggio alla destra europea e alla sua lotta contro l’eccesso di regolamentazione UE)[4] non viene affatto osteggiata da Trump. Per questo Microsoft (ma soprattutto Google) e le Big Three dei fondi di investimento (BlackRock, Vanguard e State Street), tutte entità che negli ultimi anni hanno mostrato (assieme a buona parte delle industrie manifatturiere) una netta attitudine globalista sono invece nel mirino Donald o comunque entrano in attrito con l’attuale establishment. Un attrito che però non comporta necessariamente uno scontro all’ultimo sangue, anzi. Trump ha tuonato contro i rapporti tra Panama e Cina; subito dopo BlackRock ha comprato le attività portuali di Panama: cosa che può essere interpretata sia come modo per sedare il conflitto che Trump stava scatenando, sia, al contrario, come una sorta di tacita o concordata divisione del lavoro. Non dobbiamo quindi attenderci uno stop alla pulsione del capitale finanziario per l’investimento estero: piuttosto finanzieri trumpiani e antitrumpiani continueranno ad agire ad ampio raggio, con intenti magari diversi e confliggenti, ma anche con significativi momenti di alleanza e mediazione.

In base a tutto ciò si può dire che anche se Trump riconosce l’esistenza di un multipolarismo di fatto, lo riconosce non come una palestra di equilibrismi bensì come un campo di battaglia, come uno spazio in cui continuare a lottare per la supremazia non più puntando a dissolvere la forza dell’avversario attraverso il suo inglobamento nel mercato mondiale (come nella strategia open door), ma puntando a contrastarla con la divisione dei blocchi “antiamericani”, con la durezza della guerra economica, e con l’inevitabile correlato della presenza, se non dell’intervento, militare. In questa lotta vi possono essere fasi diverse, tregue, accelerazioni e rallentamenti, ma lo scopo resta quello di confermare la  supremazia[5].

Si può anzi sostenere che quella che si apre è una fase più apertamente e più classicamente imperialista fatta di veri e propri scontri anche all’interno dello stesso capitalismo occidentale per conquistare mercati, materie prime, energia, influenza politica ed economica. E tutto questo, si badi bene, non come negazione della logica della globalizzazione, ma come suo inveramento dialettico: come effetto apparentemente paradossale degli squilibri da essa necessariamente prodotti all’interno delle singole economie nazionali e fra di esse. Chi spera di tornare al “pacifico” ordine liberale è avvertito.

Il MAGA, dunque, non è affatto un momento introspettivo che sospende lo scontro con il mondo. Certo, per l’imperialismo statunitense una ritirata tattica era inevitabile. Il presunto “momento unipolare” nato dall’Ottantanove ha infatti favorito un eccessivo protagonismo esterno del capitale e degli eserciti nordamericani, tale da minacciare la tenuta economica e sociale del fronte interno. Dalla diastole, ossia dall’eccessivo rilassamento, gli Stati Uniti passano quindi ora alla sistole, ossia alla relativa contrazione: le ragioni della sicurezza economico/strategica divengono momentaneamente più importanti, in caso di contrasto, della ricerca del massimo profitto. Il che non si identifica affatto con la fine della prepotenza di Washington, anche perché le scelte di classe di Trump e dei suoi obbligano al conflitto esterno.

Caratteristica significativa del trumpismo (riscontrabile in modalità diverse anche in altre esperienze di destra) è infatti il voler rafforzare l’economia del proprio paese puntando contemporaneamente alla minima tassazione possibile dei patrimoni e del capitale. Il promesso sostegno allo sviluppo industriale e al reddito di una parte delle classi subalterne verrebbe garantito  dalla riduzione dei sostegni alla parte più debole del proletariato stesso (immigrati ecc.) e dai tagli sconsiderati alla pubblica amministrazione, ma in maniera egualmente rilevante dall’afflusso di capitali esteri e dai sostanziosi dazi sui beni importati. Drenaggio di capitali e pizzo sulle importazioni sono un modo particolare di realizzare l’impulso, tipico della destra, a far pagare all’estero i costi della pace sociale interna: un modo che non può che aumentare i conflitti intercapitalistici.

Ma anche se si volesse dissentire da tutto quanto qui ho sommariamente detto a proposito dell’imperialismo (che evidentemente non considero come un qualcosa di transitorio o ricorsivo, ma come un’epoca che conosce diverse modalità fenomeniche[6]), ci si troverebbe comunque di fronte ad un’altra personificazione del destino conflittuale e bellicista degli Stati Uniti: il peso della storia. O, per dirla all’anglosassone, il fantasma della path dependence, ossia l’influenza delle scelte di ieri su quelle di oggi. Ogni inquilino della Casa Bianca deve necessariamente tener conto alle scelte del predecessore, e in parte farle proprie, sia perché queste rispondevano a esigenze oggettive, sia perché l’azione di una potenza come quella statunitense crea risultati da cui non è mai facile o opportuno tornare indietro. Così il pivot to Asia è stato inaugurato da Obama, rafforzato da Trump, proseguito da Biden e ora di nuovo incrementato da the Donald. Così, fu ancora Obama a iniziare la politica daziaria che poi Trump ha rafforzato, mentre Biden è andato addirittura oltre il primo Trump, e ora questi minaccia sfracelli. Così, ancora, l’espansione della Nato a est inizia addirittura con Clinton, e tutti i successori hanno in qualche modo contribuito: lo stesso Trump, come già detto, ha finanziato lautamente l’armamento dell’Ucraina, Biden ha fatto quello che ha fatto e Trump II si trova ora a non poter recedere troppo rispetto alle (anche sue) decisioni di ieri. Infine l’Inflation Reduction Act, partorito da Biden era un chiaro incentivo a che le imprese europee si spostassero negli Usa. C’è quindi da credere che anche un ipotetico successore dem dell’attuale presidente sarebbe costretto a continuare in parte la sua opera, soprattutto per quanto riguarda il rafforzamento statunitense, a spese degli alleati, in funzione anticinese.

In ogni caso, si può attenuare momentaneamente l’impulso a iniziare vere e proprie guerre, ma non si può recedere integralmente dalla sovraestensione militare. Essa è necessaria anche in una visione meramente mercantilista, per l’esigenza economica di un presidio armato degli stretti e delle zone ricche di energia e di materie prime. Ma è necessaria soprattutto per garantire il “privilegio esorbitante” del dollaro, condizione essenziale perché gli Stati Uniti possano continuare a far debito.

E noi?

Cosa significa tutto questo per l’Italia? Per rispondere dobbiamo partire dall’Europa. E dalla spiegazione dell’atteggiamento ultrabellicista dei suoi gruppi dirigenti. Un atteggiamento che non può essere motivato solo dalla generale pochezza di questi ultimi e dalla loro difficoltà a compiere un’inversione di 180 gradi. La difficoltà c’è, e la pochezza pure: sganciarsi dall’egemonia statunitense sarebbe arduo anche per i grandi leader del passato: figuriamoci per questi, che sono cresciuti nell’illusione della scomparsa della politica. Ma se la continuazione della guerra contro Putin sembra essere, almeno a Berlino, Parigi e Londra, la preoccupazione dominante ciò si deve soprattutto al legame strutturale del grande capitale europeo col grande capitale statunitense, in particolare (ma non solo) coi fondi d’investimento[7]. Un legame che spiega anche il perché dell’adesione a una guerra che ha avuto notevoli aspetti autolesionistici, ma dalla quale non si poteva tornare indietro in quanto essa non rispondeva solo alle esigenze di Washington ma anche a quelle dell’ibrido capitale continentale. L’allargamento della Nato a Est è stato favorito anche in proprio dall’Unione europea[8] perché, sotto la veste della nobile battaglia contro l’autocrazia putiniana, si trattava (e si tratta) di insidiare uno stato forte che in quanto tale costituiva un limite al libero movimento del capitale europeo.

Se oggi si continua, quindi, non è quindi solo per automatismo, ma per le esigenze del capitalismo europeo e per il legame di quest’ultimo con una parte del capitalismo nordamericano (legame plasticamente rappresentato dalla carriera del recente vincitore delle elezioni tedesche[9]) e soprattutto con la parte che è momentaneamente in rotta con Trump, quella delle Big Three, contro la quale si è mobilitata la frazione trumpiana del capitale finanziario, quella dei Thiel, degli Andreessen e soci[10].

Dall’esito di questo scontro interno al capitalismo star and stripes (o dalla sua “pacifica” soluzione) dipenderà molta della sorte di quello continentale, ma già da oggi si può fare una constatazione. Sia che si scelga la fedeltà al nuovo padrone (magari previo accordo fra Trump e la frazione globalista del “suo” capitalismo), sia che si scelga la via di una relativa autonomia nella speranza di un ritorno del vecchio padrone, la militarizzazione dell’economia continentale è garantita. Nel primo caso perché dovremmo assumere il ruolo di presidio della frontiera con “l’autocrazia”, pagando questa volta di tasca nostra anche per rimpinguare l’industria militare nordamericana; nel secondo perché sulla base degli attuali rapporti sociali e geopolitici, risulterebbe comunque dominante la spinta espansiva, e oggi inevitabilmente bellicista, del capitalismo “nostrano”. E in tutti casi sarebbe Washington a giovarsene. Perché il riarmo aumenterebbe le vendite delle imprese belliche Usa e/o i fruttuosi investimenti di tutti i capitalisti Usa nella nostra industria militare. Ma soprattutto perché sarebbe così scongiurato per moltissimo tempo l’incubo di una convergenza tra Russia ed Europa grazie all’utilizzo simultaneo dei due distinti modi in cui Washington ha storicamente sventato questo rischio: la creazione di una tensione bellica contro la Russia e un accordo diretto Usa-Russia al fine di tenere divisa l’Europa.

Insomma, la dialettica interna al continente europeo ricalca in gran quella degli Stati Uniti, e questo indica che a una situazione che potrebbe iniziare a porre la questione dell’indipendenza da Washington si risponde ribadendo i motivi della dipendenza. Se è vero che tutto ciò che accade all’interno del blocco occidentale (dove i latenti conflitti intercapitalistici sono stati finora nascosti dall’ampio divario di forza militare) potrebbe segnare l’inizio della fine degli equilibri sorti dalla seconda guerra mondiale (che si concluse con la  sconfitta sì del nazifascismo, ma anche delle residue velleità anglo-francesi, e quindi con la “desovranizzazione” dell’Europa), c’è purtroppo da dire che nessuno dei leader europei sembra in grado di porsi all’altezza della nuova fase storica.

Cosa che vale in particolare per Italia. La militarizzazione del continente non potrà non mettere in crisi i già spinosi rapporti intergovernativi e i già asfittici meccanismi economici dell’Unione europea, e ciò, per chi vede da anni in quest’ultima lo strumento principale dell’impoverimento delle classi subalterne, non può che essere una notizia positiva. A condizione, però, che il nostro paese non risponda alla crisi semplicemente passando dalla parte del più forte, ossia di Trump. Come sono trattati i servi si è visto. Possono ottenere un qualche piccolo vantaggio, ma poi pagano il giusto e l’ingiusto, e non vorremmo dover dire un giorno: “Ieri a Kiev, oggi a Roma”. Si tratta quindi, cosa impossibile per l’attuale governo, di intervenire nella crisi per proporre quel che l’Italia non ha mai saputo proporre: ossia nuove relazioni intergovernative in funzione di un’Europa geopoliticamente neutrale e economicamente progressiva. Distruggendo così, o superando de facto o de jure, l’attuale insostenibile impalcatura unionista.

L’attuale governo non può farlo, dicevo, perché è pienamente fedele al vecchio vizio di appoggiarsi a Washington contro Parigi e Bonn: gioco magari comprensibile ieri, ma suicida oggi. Ma nemmeno Parigi e Bonn sarebbero oggi in grado di accettare la proposta, vista la natura di classe dei governi colà insediati. La speranza risiede quindi per ora solo nella possibilità che le classi subalterne europee (a iniziare dalle nostre, da troppo tempo silenziose), alzando il costo della mediazione sociale, spingano i dominanti a un cambio di rotta oppure assumano finalmente in proprio questo compito storico, cessando così di subire la geopolitica e anzi divenendone fattore rilevante[11].

Ho parlato di forza del destino sia per sintetizzare il mio pensiero sia, perché no?, per offrire un (goffo) omaggio a un maestro immortale. Ma La forza del destino è anche il titolo di un voluminoso studio dedicato da Christopher Duggan alla storia del nostro paese[12], studio in cui all’Italia è assegnato un futuro fatto soltanto della ripetizione delle tare secolari che la rendono una specie di non-stato, debole e subalterno. Ebbene: i tempi attuali sono gravi e tragici, ma sono proprio questi i tempi che possono costringerci a contrastare il presunto destino servile dell’Italia e a costruirne uno nuovo.


[1] Thomas Fazi, Trump fermerà la guerra in Ucraina?, https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/29614-thomas-fazi-trump-fermera-la-guerra-in-ucraina.html .

[2] Bastian van Apeldoorn, Jaša Veselinovič, Nanà de Graaff, Trump and the Remaking of American Grand Strategy. The Shift from Open Door Globalism to Economic Nationalism, Palgrave-Macmillan, Cham (CH), 2023.

[3] Cit. da Salvatore Minolfi, Tra due crolli. Gli Stati Uniti e l’ordine mondiale dopo la guerra fredda, Liguori, Napoli, 2005, p. 141.

[4] Andrea Venanzoni, Tecnodestra e sicurezza imperiale: le radici del Lebensraum algoritmico nell’America di Trump, https://legrandcontinent.eu/it/2025/02/03/tecnodestra-e-sicurezza-imperiale-le-radici-del-lebensraum-algoritmico-nellamerica-di-trump/.

[5] Enrico Tomaselli, Piano A, piano B, https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/29892-enrico-tomaselli-piano-a-piano-b.html.

[6] Qui faccio riferimento alla nozione complessa di epoca a cui Lenin accenna negli scritti coevi alla stesura de L’imperialismo:  “Un’epoca è tale perché abbraccia un complesso di fenomeni molto eterogenei, tipici e non tipici, piccoli e grandi, relativi ai paesi progrediti e arretrati. Non tener conto di tali condizioni concrete mediante frasi generiche sull’epoca significa abusare del concetto di epoca”, V.I. Lenin,  Intorno a una caricatura del marxismo e all’ “economismo imperialistico”, in Opere Complete, Editori Riuniti, Roma, 1965, vol. 23, p. 34 e. Si veda anche Sotto la bandiera altrui, ibidem, vol. 21 p. 138.

[7] Benjamin Bürbaumer, “Alliances et accumulation”, in Terrains-Théories, n. 18, 2024.

[8] Salvatore Minolfi, Le origini della guerra russo-ucraina. La crisi della globalizzazione e il ritorno della competizione strategica, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 2023, capp. XI-XIII.

[9] German Foreign Policy, Transatlantic Contradictions, https://www.german-foreign-policy.com/en/news/detail/9879.

[10] Si vedano Alessandro Aresu , “La PayPal Mafia diventa deep State” e Marco d’Eramo, “BlackRock & Co. Motori immobili d’America”, entrambi in Musk o Trump. America al bivio, Limes, n. 12, dic. 2024.

[11] Per approfondimenti si veda il mio “Salvati dal multipolarismo? Appunti sui presupposti geopolitici di una nuova costituzione”, in Lo Stato incostituzionale. Il Paese tradito, La fionda n. 2, 2024.

[12] C. Duggan, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, Laterza, Roma-Bari, 2009.