Delitto di Garlasco: quando il passato torna a parlare

Messaggi, perquisizioni e vecchie ipotesi: la nuova inchiesta rischia di inseguire ombre?

Mag 16, 2025 - 04:20
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Delitto di Garlasco: quando il passato torna a parlare

Ora la nuova indagine sul delitto di Garlasco ruota attorno ai dispositivi elettronici. Dopo quasi vent’anni e una sentenza passata in giudicato, si riaccendono i riflettori su attività che, appare chiaro, avrebbero dovuto svolgersi già nel 2007. In questo scenario, dunque, sembra che più verità siano rimaste sepolte per anni. E’ davvero così?


Le perquisizioni a casa di Andrea Sempio, le sue chat, quelle della madre e delle gemelle Cappa riesaminate, i tabulati recuperati dal passato. Tra questi, i 280 messaggi scambiati proprio tra Paola Cappa – cugina di Chiara Poggi – e un amico. Frammenti di linguaggio privato che oggi tornano alla luce come potenziali chiavi di lettura. Tra questi, una frase: “Mi sa che abbiamo incastrato Stasi.”


Riletta oggi, in piena riapertura del caso, sembra un’indicazione precisa, un potenziale segnale. Il significato delle parole non si misura solo in superficie. Si misura nel contesto emotivo e cognitivo in cui sono nate. E soprattutto, si misura alla luce di un pericolo metodologico sempre in agguato: il bias di conferma. Il bias di conferma è un meccanismo mentale pervasivo. Una lente invisibile che ci porta, senza rendercene conto, a selezionare solo le informazioni che confermano la nostra ipotesi. In altre parole, vediamo ciò che vogliamo vedere. E lo interpretiamo come prova.


All’alba della nuova inchiesta, quindi, il messaggio di Paola Cappa rischia di essere proprio questo: una frase letta non per ciò che è, ma per ciò che potrebbe sembrare alla luce di nuove ipotesi. Se oggi si cerca una diversa ricostruzione del delitto, si rischia di piegare ogni frase del passato viene piegata a quella narrazione. Considerando che, ad oggi, nessuna delle due risulta essere indagata. Al contrario, invece, siamo sempre nel campo delle ipotesi che dovrebbero essere verificate in funzione delle relazioni intercorrenti tra i vari protagonisti delle storie.

Rileggere lo stesso messaggio a distanza di quasi due decenni significa rischiare di attribuirle intenzioni che non c’erano. Questo è il punto. Il bias di conferma non è solo un errore di ragionamento. È una trappola emotiva. Una scorciatoia cognitiva che ci fa sentire più vicini alla verità mentre, in realtà, ci allontaniamo dall’oggettività. La riapertura delle indagini è un atto di giustizia. Ma giustizia non è riscrivere i fatti per farli combaciare con un sospetto. È verificare, senza cedere al bisogno di chiudere il cerchio a tutti i costi. Perché in ogni caso mediatico c’è un secondo rischio, sottile e silenzioso: che la verità venga sovrascritta dalla convinzione di averla già trovata.