De Simone ultimo visionario. Addio al maestro della “Gatta Cenerentola“. L’avanguardia di Napoli
Morto a 91 anni il regista e musicista: un genio della sperimentazione. Fondò la Nuova Compagnia di Canto Popolare, fu sempre contro l’establishment. .

Un visionario, un genio dell’innovazione, ma anche un musicologo legato alla cultura pop che distillava in avanguardia folgorante. Se ne è andato per una polmonite, Roberto De Simone, 91 anni, ultimo grande sacerdote di una tradizione che seppe trasformare in mito imperfetto e rito collettivo. Una lunghissima stagione vissuta nelle stanze di via Foria a Napoli, sacrario di memorie e laboratorio di creazioni, dove il genio del compositore, regista, etnomusicologo e scrittore ha continuato fino all’ultimo a spremere il succo amaro e dorato della sua originale napoletanità. I funerali, domani al Duomo, saranno un congedo solenne da quella città che lo ha amato e odiato, venerato e avversato perché Roberto non fu mai un personaggio rassicurante, anzi fu spesso urticante e inviso all’establishment politico-culturale napoletano, da Eduardo a Ghirelli, da La Capria a Napolitano.
Nato a Napoli nel 1933, ereditò il sangue artistico di una famiglia che respirava teatro e musica: il nonno attore nella compagnia di Salvatore De Muto (l’ultimo Pulcinella), il padre tra le quinte delle sceneggiate, la zia dal timbro operistico. Il pianoforte di casa divenne la sua prima cattedra, ma fu la guerra – con l’esilio a Somma Vesuviana – a rivelargli l’universo contadino, quell’humus magico-religioso che Ernesto de Martino stava portando alla luce.
Il 1967 segnò la svolta. De Simone, già concertista, incontrò un gruppo di giovani – Eugenio Bennato, Giovanni Mauriello, Beppe Barra, Patrizio Trampetti, Fausta Vetere – assetati come lui di una musica popolare che fosse linguaggio vivo. Nacque così la Nuova Compagnia di Canto Popolare, laboratorio di un’avanguardia che fondeva cunti, tammurriate e sperimentazione.
Il capolavoro arrivò nel 1976: La gatta Cenerentola, opera-fiume presentata a Spoleto, dove la fiaba di Giambattista Basile si trasformò in epopea sonora, tra cori ossessivi, percussioni ancestrali e una drammaturgia che univa Brecht alla tradizione dei pupi. Fu un terremoto: De Simone aveva resuscitato Pulcinella, ma lo aveva fatto indossando i panni di Stravinsky (sul suo pianoforte, Le Sacre du Printemps era sempre aperto).
Eppure per comprendere il talento di De Simone, bisogna riascoltare le sue stesse parole: "Quando studiavo pianoforte e composizione al Conservatorio, dopo aver ascoltato la Butterfly di Puccini, volevo diventare un Puccini post Cio-Cio-San con un orecchio a Bartók e uno a Gershwin. Poi lessi La terra del rimorso di Ernesto de Martino".
Un incontro che lo spinse sempre più nella ricerca etnologica per studiare riti, danze, credenze legate ai contadini del Sud. Divenne così qualcosa di folgorante e fuori dagli schemi, un compositore sospeso tra il melodramma pucciniano e il ritmo spezzato di Bartók, tra il jazz di Gershwin e l’ossessione per i rituali del Sud. Un artigiano musicale, come amava definirsi, costretto a insegnare solfeggio e a scrivere per la televisione – Canzonissima, Senza rete, le strofe per Ferré – per sopravvivere, dopo che l’establishment gli aveva sbarrato le porte della carriera concertistica.
Tuttavia, come accade ai veri innovatori, i conflitti non tardarono: la Nccp si sgretolò, De Simone, con il suo approccio registico e compositivo radicale, entrò in conflitto con alcuni membri (come Bennato e Mauriello), che volevano una linea più musicale e meno teatrale. Bennato lasciò per fondare i Musicanova, De Simone proseguì con altri artisti (tra cui Media Aetas).
La sua produzione è un continente sterminato: L’opera buffa del Giovedì Santo, Masaniello e Mistero Napolitano che riportano in vita antichi testi del Settecento napoletano. Poi le regie al San Carlo (di cui fu direttore artistico negli anni ’80) e il Flauto Magico che nel 1990 inaugurò la stagione alla Scala. Nonostante la sua grandezza restò sempre un outsider. Un veggente, che seppe anticipare il Neapoletan Power – quel mix di radicalità e radici che oggi anima artisti da Liberato ai Foja a Geolier. La sua lezione resta: la cultura popolare, per sopravvivere, deve essere violata, stravolta, resa contemporanea.