Da Umberto Eco a Filidei: "Faccio vivere il passato. La mia Rosa all’opera"
Il compositore racconta la grande avventura di portare alla Scala il bestseller "Come Verdi e Shakespeare: aiuta nel melodramma partire da un testo conosciuto".

"Ho appena assistito alla prova generale: dopo anni di lavoro mi sento svuotato, come se avessi scalato una montagna" spiega Francesco Filidei aspettando il debutto della sua nuova opera Il nome della rosa tratta dal bestseller del 1980 di Umberto Eco; il libretto è dello stesso compositore e Stefano Busellato con la collaborazione di Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti che hanno lavorato alle due versioni, italiana e francese. L’opera è stata commissionata dalla Scala e dall’Opéra national de Paris, lo spettacolo è coprodotto dal Teatro milanese con l’Opéra e con il Teatro Carlo Felice di Genova. Il nome della rosa diretta da Ingo Metzmacher debutterà alla Scala domenica con la regia di Damiano Michieletto, le scene di Paolo Fantin, i costumi di Carla Teti. Adso da Melk e Guglielmo da Baskerville sono Kate Lindsey en travesti e Lucas Meachem.
Maestro Filidei che senso ha oggi scrivere un’opera? "Per come la vedo io è uno strumento del passato, c’è stata un’epoca in cui era al centro dell’attenzione mediatica e punto di riferimento della cultura italiana. Oggi l’opera ha la forza di ciò “che è stato“ come diceva Pasolini, con quella malinconia che si porta dietro, non ha elementi nel nostro momento storico. Mi interessa lavorare con queste forme passate e farle vivere: è così che si cerca di recuperare il proprio passato per costruire il nostro futuro".
Perché si è ispirato a un romanzo così celebre, tradotto in tutto il mondo? "È sempre stato fatto, pensiamo ai tanti Shakespeare diventati melodrammi verdiani. L’opera è un meccanismo complesso, è importante che alcuni fattori siano già rodati, ci vogliono punti di riferimento per poter seguire la vicenda e un romanzo conosciuto aiuta. Lo stesso Puccini che aveva un fiuto infallibile è sempre partito da testi già testati in teatro".
Quali sono le maggiori difficoltà che ha incontrato nella stesura dell’opera? "Condensare un romanzo di ventisei ore di lettura in tre ore ha richiesto un lavoro di circa diciotto mesi. Ci siamo riusciti, almeno credo. Dopo questa lunga genesi tutto è andato, oserei dire, da solo; il mondo di quel libro era stato costruito e i personaggi cantavano, parlavano in una determinata maniera senza che io cercassi di forzarli. Mi sono venuti incontro da soli".
La musica classica contemporanea riesce ad avvicinare un pubblico diverso da quello che frequenta le sale concerto? "Spero di sì, quando propongo la mia musica spero sempre di abbracciare un numero il più elevato possibile di persone senza rinunciare alla mia ricerca. Nel Nome della rosa ho cercato di mantenere una forma che tenesse l’aria, la canzone, come punto di riferimento. La ricerca è entrata nell’orchestrazione, nel lavoro di costruzione formale".
Lei è nato a Pisa, si è formato in Italia ma poi l’ha lasciata. "E poi sono tornato. Credo sia il desiderio di tanti conoscere, esplorare, viaggiare. Ho studiato in Francia, abitato in Germania, mia moglie è giapponese, ho lavorato negli Stati Uniti. Oggi è necessario muoversi, confrontarsi e portare a casa ciò che si è vissuto".
Quando ha capito che sarebbe diventato un compositore? "Ho sempre amato la musica, fin da piccolo, spesso ascoltandola mi mettevo a piangere talmente la commozione era inarrestabile. Se uno apprezza la pittura prima o poi cercherà di dipingere, se uno ama la musica prima o poi cerca di suonare per capirla al meglio. Io volevo solo scoprire come faceva la musica classica a colpirmi in maniera così potente".