Da bracciante sfruttato a cittadino italiano: perché reputo giusto il referendum sulla cittadinanza
Finalmente italiano, in un Paese che è anche il mio. Sono arrivato in Italia dal Camerun nel 2008, per studiare al Politecnico di Torino. Come tanti stranieri, ho lasciato il mio Paese con in mente un progetto di vita migliore, ma ho conosciuto presto anche l’altra faccia dell’Italia: quella dura e poco conosciuta del lavoro […] L'articolo Da bracciante sfruttato a cittadino italiano: perché reputo giusto il referendum sulla cittadinanza proviene da Il Fatto Quotidiano.

Finalmente italiano, in un Paese che è anche il mio.
Sono arrivato in Italia dal Camerun nel 2008, per studiare al Politecnico di Torino. Come tanti stranieri, ho lasciato il mio Paese con in mente un progetto di vita migliore, ma ho conosciuto presto anche l’altra faccia dell’Italia: quella dura e poco conosciuta del lavoro nei campi. Ho lavorato come bracciante agricolo, sfruttato dai caporali.
Nonostante tutto, non ho mai smesso di credere in questo Paese. Ho dovuto attendere ancora diversi anni, ma finalmente dopo quasi vent’anni di sacrifici, di studio, lavoro e di lotta per i diritti dei lavoratori, sono diventato ufficialmente cittadino italiano il 2 dicembre del 2022. Un gesto che ho accolto con profonda gratitudine e commozione.
Per questo considero giusta e necessaria la proposta di referendum che mira a ridurre da 10 a 5 anni il tempo di residenza richiesto agli stranieri per ottenere la cittadinanza italiana. In molti Paesi europei, questo è già realtà. In Francia e in Belgio, bastano 5 anni. Anche la Germania ha approvato, all’inizio del 2024, una legge che riduce da 8 a 5 anni il termine per la naturalizzazione, proprio in linea con quanto proposto in Italia.
Ottenere la cittadinanza nel paese dove si è scelto di vivere significa partecipare attivamente alla società del luogo. Significa accedere ai diritti, ma anche assumersi responsabilità e doveri. Significa uscire dall’ombra. Ma significa anche legalizzare il lavoro, contrastare lo sfruttamento, rompere il ricatto a cui inevitabilmente sono sottoposte le migliaia di persone senza documenti che per questo sono ancora più vulnerabili.
Chi vive stabilmente in Italia da anni, lavora, paga le tasse, manda i figli a scuola, partecipa alla vita civile è già parte della comunità nazionale ma resta esclusa dalla cittadinanza politica e civile. Un controsenso che genera sacche di persone esposte a soprusi proprio perché prive di pieni diritti.
Legalizzare, includere, riconoscere diritti significa rafforzare la democrazia, combattere il lavoro nero, favorire l’integrazione e la coesione sociale. In un Paese dove il tasso di invecchiamento è tra i più alti dell’Ue, dove il tasso di natalità è da diversi anni in frenata e in cui la manodopera bracciantile agricola è quasi interamente straniera, abbreviare i tempi per aver riconosciuta la cittadinanza è una battaglia di civiltà. E va perseguita fino in fondo.
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