Cosa rende ‘The Last of Us’ una serie leggendaria
Padri imperfetti, figlie surrogate, funghi killer e un’umanità al collasso: ‘The Last of Us’ non è solo un adattamento ben riuscito, è un nuovo standard per la TV

Quando ‘The Last of Us’ è uscito su HBO nel gennaio 2023, sembrava il classico azzardo da fan service: trasporre uno dei videogiochi più amati e cinematografici di sempre, senza deludere chi l’aveva già vissuto joystick alla mano. E invece, lo show ha fatto molto di più: ha preso il “trauma interattivo” del gioco e l’ha amplificato, rendendolo viscerale, televisivo, collettivo.
Pedro Pascal e Bella Ramsey si sono ritagliati un posto nella cultura pop globale con due interpretazioni che evitano ogni cliché e colpiscono dritto al cuore. Joel, l’antieroe logorato da lutti e colpe; Ellie, la ragazza immune al virus ma non alla crudeltà del mondo. Una relazione padre-figlia non biologica che è la spina dorsale dell’intero show.
La serie ha portato a casa 8 Emmy Awards, ha totalizzato oltre 24 nomination, ha ricevuto un Peabody Award, e ha dimostrato che sì, un adattamento videoludico può aspirare all’eccellenza. Ma la sua forza vera non sta nei trofei: sta nella capacità di farti dubitare di cosa sia “giusto” in un mondo guasto. Sta nel finale, che ancora oggi divide.
I motivi del successo
1. Un mondo che sembra vivo, anche se la morte dilaga
Altro che zombie show. Il Cordyceps qui è scientificamente plausibile, radicato in un incubo biologico che il Guardian ha definito “terrifyingly elegant”. La serie costruisce un mondo post-umano che respira ancora: dai centri commerciali abbandonati agli hotel sommersi, tutto parla di un passato fin troppo recente per essere dimenticato.
2. Un antieroe che non cerca redenzione
Joel non è un eroe spezzato in cerca di redenzione. È un uomo che sceglie l'amore al posto della salvezza collettiva, e lo fa con una brutalità che non ammette sconti. Il New Yorker lo definisce “un personaggio che non si redime, ma si giustifica”. È proprio questa zona grigia morale a rendere ‘The Last of Us’ una serie così pungente.
3. La puntata di Bill e Frank è già storia
Terzo episodio, titolo: ‘Long, Long Time’. Una deviazione narrativa, una bottiglia di vino, un amore gay raccontato con delicatezza struggente nel mezzo del collasso del mondo. È stato definito “una delle migliori ore di televisione mai scritte”. E no, non è un’esagerazione.
4. L’equilibrio perfetto tra gameplay e dramma
Chi ha giocato al titolo del 2013 ritrova sequenze intere ricostruite frame by frame. Ma la serie osa anche cambiare: aggiunge sfumature, backstory, respiri. Non è un semplice copia-incolla visivo. È un adattamento che capisce che fedeltà non significa immobilità, e che certe emozioni possono funzionare anche senza un controller in mano.
5. La qualità HBO, al servizio del disastro
Produzione da capogiro, regia cinematografica (Craig Mazin e Neil Druckmann guidano tutto), e una colonna sonora firmata da Gustavo Santaolalla che ti spacca il cuore a ogni nota. Ma è anche il silenzio, in ‘The Last of Us’, a fare rumore: i momenti in cui lo schermo si ferma su uno sguardo, una scelta, una morte che non si può evitare.