Con Francesco la Chiesa è diventata più globale e vera. Anche nella sua fragilità
Durante il pontificato ha mostrato che il cattolicesimo è una realtà mondiale, multiculturale e complessa

La prima immagine che mi viene in mente è una delle ultime: papa Francesco in maglia di lana, coperto da un poncho andino a righe nocciola, le cannule trasparenti di un respiratore nel naso, il volto tirato eppure sorridente.
Quell’immagine è di una settimana fa: Bergoglio porta addosso i segni della malattia con la stessa disarmante semplicità con cui aveva inaugurato in suo pontificato, nel 2013: “Buonasera”. Non un santo e meno che mai un re – spogliato perfino della veste bianca –, ma solo un uomo come lo siamo tutti, alla fine della vita: anziano, sofferente, fragile sulla sua carrozzina. In quell’immagine c’è dunque il compimento del senso più profondo di questi suoi dodici anni alla guida della Chiesa di Roma, nel nome di Francesco, che più di ogni altro incarnò la radicalità del Vangelo contro la seduzione del potere – a partire dal potere ecclesiastico –, il primato degli ultimi, l’amore per tutto il creato, in antitesi ai simboli regali, alla malia e agli spifferi cospiratori dei palazzi.
Adesso che è morto, adesso che “è tornato alla casa del Padre” – come ha detto ieri mattina il Camerlengo Farrell – la sua verità resta in quel poncho scomodo, come scomodi sono stati questi anni destinati a lasciare un’eredità pesante, e difficilmente negoziabile.
Non è stato un pontificato facile, il suo. E non è stato un papa facile, Francesco. Alcuni cardinali, che lo elessero forse aspettandosi un riformatore d’apparato, si sono trovati quasi subito davanti a un uomo imprevedibile, poco incline alla tecnocrazia. Così Francesco lascia una Chiesa probabilmente non più divisa di quanto già non fosse, ma di certo più sincera nelle sue divisioni. E per questo, forse, più vera.
Dei tanti segni del suo pontificato, voglio ricordare l’assenza di ambiguità, talvolta pagata a caro prezzo. Francesco è stato molto amato e molto odiato, e anche in questo ha rotto un tabù segnando un primato: mai le critiche a un papa erano state così manifeste e spudorate, se non violente. Risultato di un linguaggio, il suo, capace di rinunciare al paravento di formule che prediligevano la retorica alla schiettezza, perfino aspra, del messaggio evangelico di cui Bergoglio si è fatto interprete inflessibile, cercando di avvicinare il papato al Vangelo e il Vangelo al mondo.
Ha affrontato con fermezza inedita la piaga degli abusi sessuali: nuove leggi, commissioni indipendenti, la rimozione del segreto pontificio, la riduzione allo stato laicale di un cardinale. Ha preso posizione su temi sociali scottanti, parlando di ambiente, migrazioni e diseguaglianze senza mai cedere al compromesso. Ha chiesto tolleranza verso le persone omosessuali, ha aperto alle unioni civili, pur ribadendo la dottrina. Ha concesso alle donne ruoli liturgici finora riservati solo agli uomini, ma senza oltrepassare la soglia dell’ordinazione. È stato, in tutto questo, più pastore che teorico, più evangelico che dottrinale. Diffidente verso i teologi, ha evitato i conflitti dell’era Ratzinger: non ha condannato, non ha inquisito. Non ha prodotto grandi trattati, ma ha scritto pagine di cristallina purezza, come Evangelii gaudium, Laudato si’, Fratelli tutti.
Francesco, soprattutto, ha votato il papato al mondo globale. Ha mostrato che il cattolicesimo non è più un patrimonio europeo da amministrare, ma una realtà mondiale, multiculturale e complessa. Da Lampedusa a Lesbo, da Bangui a Baghdad, dalla Turchia alla Mongolia, Francesco ha portato la Chiesa dove soffre l’umanità, dove i cristiani sono minoranza, dove la parola pace ha il sapore della scommessa. È stato il primo papa a varcare la soglia della penisola arabica, a parlare ai popoli musulmani con rispetto e amicizia. L’accordo con la Cina del 2018 resta, tra luci e ombre, il suo gesto diplomatico più audace.
È stato un papa del suo tempo e anche del nostro disorientamento. Il suo pontificato ha accompagnato una lunga crisi dell’ordine mondiale: dalla Crimea alla Brexit, dal caos dell’America Latina alle guerre in Ucraina e in Medio Oriente, fino all’ascesa dei nazionalismi. Ha abitato queste contraddizioni – globalizzazione e deglobalizzazione, interconnessione e chiusure – senza mai rinunciare al ruolo di coscienza critica. In questo scenario instabile, Francesco ha dato alla Chiesa la voce di chi non ha paura di sfidare le narrazioni dominanti, come ha fatto di recente scrivendo una lettera personale ai vescovi americani contro le politiche anti-migranti di Trump, e non negandosi – proprio la mattina di Pasqua – a J.D. Vance, uno dei volti del nuovo cattolicesimo conservatore.
Che papa è stato, dunque? Meno rivoluzionario ma più radicale. Meno riformatore d’apparato, più provocatore di coscienze. Meno amato dai poteri interni, più ascoltato dai popoli.
Difficile dire se oggi la Chiesa sia più o meno forte di quanto non fosse dodici anni fa. Di certo è più consapevole della propria pluralità, e anche delle sue debolezze. Francesco ha fatto emergere questa tensione, senza risolverla, ma rendendola visibile.
E ora, cosa resta? Resta una Chiesa messa davanti alle sue fragilità, e resta un mondo che Francesco ha interrogato con umiltà e inquietudine, e che ha profondamente amato. Resta soprattutto un papa che è stato, prima di ogni altra cosa, un uomo: con le sue intemperanze e le sue gaffe, coi suoi sorrisi e la sua straordinaria tenerezza, con la semplicità e la dolcezza delle sue parole che lo facevano sentire vicino a ciascuno di noi, perfino con la disarmante immediatezza di un “buonasera”.
E allora, adesso, tocca a noi ripetere quelle parole. Con gratitudine, con affetto, con speranza: buonasera, papa Francesco. E grazie.