Vi racconto le nuove giravolte di Giavazzi sul Corriere della sera
Ma che cosa ha scritto l'economista Francesco Giavazzi nell'editoriale del Corriere della sera? Il commento di Liturri

Ma che cosa ha scritto l’economista Francesco Giavazzi nell’editoriale del Corriere della sera? Il commento di Liturri
La guerra (stupida) dei dazi, è il titolo dell’editoriale firmato oggi sul Corriere della Sera dal professor Francesco Giavazzi, macchiato da un banale refuso, che è pero l’ultimo dei problemi. Infatti sostenere che «anche un euro più debole rispetto al dollaro ridurrebbe le esportazioni europee negli Usa rendendo i nostri beni più costosi per i consumatori statunitensi» – insomma il mondo al contrario, dove un bene che costa di meno dovrebbe essere venduto di meno – è errore troppo grande per credere che Giavazzi possa affermare certe cose restando serio. Anche perché nel prosieguo dell’articolo, la dinamica del rapporto tra cambio svalutato/rivalutato e esportazioni crescenti/decrescenti viene riportato nel giusto alveo. Infatti poche ore dopo nella versione online dell’articolo, hanno sostituito “debole” con “forte” e l’incidente è rientrato, anche se poi contestualizzata, la nuova formulazione appare contraddittoria.
Archiviato questo punto nella cartella “pagliuzze”, ci concentriamo sulla “trave” che emerge prepotentemente dalla lettura dell’articolo. Per sostenere che non ci conviene imbarcarci in una guerra di dazi e contro dazi verso gli Usa («metodo stupido e poco efficace») Giavazzi propone la tanto vituperata e bistrattata leva del cambio tra le valute. A proposito della quale ci siamo sentiti ripetere per 30 anni che era la «droga», la «scorciatoia» o la «catastrofe» che però aveva tenuto in piedi l’economia italiana ai tempi della «liretta» (marker inconfondibile degli autorazzisti nostrani che non hanno mai messo piede in un’azienda).
Invece oggi arriva Giavazzi e con un candore degno di miglior causa che si tratta di «flessibilità monetaria» o meglio «deprezzamento», scelta lessicale elegante che non evoca abissi e si porta bene su tutto. Soprattutto quando la si deve applicare all’euro.
Dopo l’austerità espansiva, rivelatasi non proprio così espansiva, oggi siamo all’ennesima giravolta spaziale per riportare in auge quella che era sempre stata considerata la madre di tutti i vizi italici. Vizi da cui ci aveva appunto salvato il virtuoso euro, costringendoci nella camicia di forza del recupero di competitività solo per via di una dolorosissima deflazione, per aggiustare i prezzi relativi con i nostri concorrenti esteri. Col risultato finale di distruggere una parte consistente dell’apparato industriale del nostro Paese, reo di non tagliare costi e salari a sufficienza, avvitandosi in una spirale mortale. Esattamente il modello i cui vizi sono stati descritti da Mario Draghi nel suo ormai storico discorso di La Hulpe dell’aprile scorso.
Apprendiamo quindi nell’anno del Signore 2025 che il cambio non è né droga, né scorciatoia, bensì una normalissima leva di politica economica, (come minimo) utilissima per assorbir
Tanto è clamorosa questa ammissione che potremmo fermarci qui. Ma Giavazzi avanza imperterrito senza fare una piega dinanzi a un “contrordine compagni” di portata storica e propone di utilizzare un euro debole come leva per contrastare l’effetto (presunto, tutto da dimostrare prodotto per prodotto, come qui argomentato) depressivo dei dazi sui volumi delle merci esportate verso gli USA. I cui importatori subirebbero, da un lato, il maggior costo dei dazi e, dall’altro, beneficerebbero del minor costo in dollari del bene importato, grazie al cambio euro/dollaro indebolito.
Basta distrarsi un attimo e Giavazzi trasforma la «droga» in «flessibilità della politica monetaria [che] è quindi uno strumento cruciale per mitigare le pressioni recessive dei dazi statunitensi». Come non averci pensato prima? Ma Giavazzi dimentica di fornirci un paio di (decisivi) dettagli: chi dovrebbe manovrare questa leva? Forse la Bce? E sulla base di quale mandato? Ove mai fosse possibile, sarebbe comunque una notevole e straordinaria ammissione. Finora respinta come un’eresia da qualsiasi presidente della Bce.
Inoltre Giavazzi forse dimentica di notare che quest’indebolimento dell’euro è già in atto esattamente dal giorno della vittoria elettorale di Trump. Da allora (cambio a 1,09) fino agli inizi di febbraio (cambio intorno a 1,02) qualsiasi annuncio o decisione effettiva riguardante i dazi è stata accolta dai mercati con un rafforzamento del dollaro. Processo che ha avuto un parziale recupero a partire da metà febbraio solo per una strutturale rotazione dei mercati finanziari a favore dei sottovalutati asset europei e in uscita dalla bolla di Wall Street, da tempo in attesa di una salutare correzione.
Giavazzi cita a questo proposito la reazione cinese ai dazi della prima amministrazione Trump. Yuan svalutato del 13% per compensare i dazi e palla (quasi) al centro. In questo nuovo contesto, Giavazzi propone che «l’euro venisse lasciato deprezzare» (come una liretta qualsiasi…) in una misura intermedia tra Yuan e Dollaro, per attenuare l’impatto recessivo.Notiamo ancora una volta l’uso disinvolto di una leva che fino a ieri era innominabile.
Tra le altre leve proposte da Giavazzi per ridurre lo squilibrio commerciale con gli USA, senza ricorrere ai dazi, Giavazzi propone un forte stimolo alla domanda interna dell’eurozona («più consumi, più investimenti o anche più spesa pubblica») anche qui con una straordinaria girandola rispetto al passato. Opzione senz’altro condivisibile se non fosse per il “piccolo” dettaglio costituito dal fatto che per 30 anni l’Eurozona si è retta esattamente sulla domanda estera (che è proprio il motivo delle pressioni di Trump) e che un aumento di domanda interna trainato prevalentemente da missili e cannoni (comprati dagli Usa) appare un progetto di corto respiro. Una volta riempiti gli arsenali, l’effetto è una tantum (anche svuotandoli, perché poi non ci sarebbero più consumatori…). Una prospettiva non proprio esaltante.
L’euro forte (non debole…) sarebbe anche un’arma a disposizione di Trump per frenare le esportazioni europee ma, anche qui Giavazzi dimentica di aggiungere qualche decisivo dettaglio. Infatti, renderebbe più costosi per gli americani i nostri servizi (tra cui il turismo, di cui siamo esportatori netti), oltre appunto a danneggiare il settore manifatturiero.
Di rilievo e condivisibile in toto è l’invito ad assorbire l’impatto dei dazi attraverso la diversificazione degli sbocchi commerciali. Ma qui ci sarebbe chiedere a Giavazzi che fine abbia fatto il mercato interno da 450 milioni di consumatori che avrebbe dovuto costituire il nerbo della Ue. Se siamo costretti a tremare per le minacce verso 65 miliardi di export italiano verso gli Usa, significa che la Ue ha fallito, almeno come mercato. A chi dovremmo vendere in un «sistema commerciale aperto»? Ai marziani?
Condivisibili anche i rischi prospettati da Giavazzi. La UE potrebbe attaccare l’industria tecnologica Usa, con questo facendo la parte del marito che per fare il dispetto alla moglie si taglia i …, data la predominanza delle imprese Usa in questo settore. E poi la Bce potrebbe reagire in modo troppo brusco all’effetto inflattivo sulle importazioni di un euro debole, frenando il processo di discesa dei tassi in atto.
A questo riguardo, Giavazzi sostiene che la Bce dovrebbe avere il coraggio di tenere la barra al centro e non preoccuparsi delle mosse della Fed, anche se quest’ultima si muovesse in direzione opposta. Uno scenario tutto da verificare, quello della Bce che riduce i tassi mentre la Fed li tiene fermi o li rialza.
In conclusione, anche con questi rischi, «un euro più debole è una risposta naturale ai dazi americani».
La droga è diventata salutare. Così è, se vi pare.