Quando vince la legge del dragone
Pechino adegua il suo apparato giuridico internazionale. Obiettivo: avere nuovi strumenti nelle controversie con gli altri Paesi. E un’arma in più rispetto agli Stati Uniti.La Cina di Xi Jinping si pensa definitivamente impero. Di questa sua nuova autocoscienza del potere si è occupato un pregevole studio dell’Institut Montaigne, uno tra i più quotati centro studi francesi, a firma di Mathieu Duchatel e Georgina Wright. L’analisi, intitolata China’s Extraterritoriality: A New Stage of Lawfare, prende in esame l’utilizzo «fuori porta» che Pechino sta facendo del diritto come strumento strategico - da far valere appunto anche all’estero - per rafforzare la sua posizione globale e proteggere i propri interessi nazionali. Sul piano storico e culturale, l’extraterritorialità del diritto è stata a lungo considerata simbolo di sottomissione perché riportava le menti al «secolo delle umiliazioni», il periodo della storia cinese che va dal 1839 al 1949, cioè dalla Prima guerra dell’Oppio (1839- 1842) fino alla fondazione della Repubblica popolare nel 1949, dopo la vittoria del Partito comunista nella guerra civile contro il Kuomintang. Durante questo secolo, la Cina subì una serie di offese politiche e perdite territoriali a causa di guerre, trattati rovinosi e ripetuti interventi stranieri, che portarono a una significativa perdita di sovranità e dignità nazionale. L’extraterritorialità del diritto era quella degli altri, dal momento che le potenze straniere erano di casa in Cina e vi applicavano le proprie leggi. Oggi questo paradigma è rovesciato e reinterpretato come mezzo per affermare una supremazia cinese. Sul piano geopolitico, tutto ciò rappresenta una nuova fase del «lawfare», espressione che descrive la guerra guerreggiata a suon di leggi. In particolare, possiamo distinguere diverse principali direttrici. La prima è la difesa o ritorsione contro interventi esterni percepiti come interferenze rispetto alla strategia del Partito. La Cina utilizza per esempio strumenti legali per contrastare sanzioni economiche e restrizioni tecnologiche, principalmente provenienti dagli Stati Uniti. Per esempio, norme come la «Export Control Law» e le «Blocking Rules» mirano a ridurre l’impatto delle sanzioni straniere e proteggere le imprese del Dragone. Così il regolamento sulla lista delle entità inaffidabili del 2020 prende di mira aziende straniere che danneggiano gli interessi cinesi, mentre la legge contro le sanzioni straniere del 2021 permette di rispondere a misure economiche che fanno saltare la mosca al naso agli strateghi di Pechino. In secondo luogo, il regime ricorre a norme extraterritoriali per giustificare azioni internazionali. È il caso delle rivendicazioni nel Mar cinese meridionale, dove le cronache danno conto con allarmante frequenza di fibrillazioni e incidenti. La strategia reattiva del gigante asiatico, sul piano legale, sta rapidamente cedendo il campo allo sviluppo di soluzioni offensive e coercitive, così da costringere altre nazioni o aziende a conformarsi alle sue politiche. Questo approccio riflette la rivalità sistemica con gli Stati Uniti e il desiderio cinese di riequilibrare l’influenza globale in proprio favore. A farne le spese potrebbe tuttavia essere l’Unione europea, che secondo l’analisi dell’Institut Montaigne non ha ancora adeguato il suo «arsenale» giuridico per contrastare una simile repressione transnazionale. Ancora una volta, in Europa, toccherà fare affidamento sui popoli più determinati. Come i lituani, che, aggrediti dalla Cina per i loro rapporti con Taiwan sul finire del 2021, ebbero il merito di prendere il toro per le corna, determinando un sussulto da parte della Commissione, obbligandola a una riflessione sulle soluzioni giuridiche attivabili in caso di «bullismo» da parte di Pechino. Vale infine la pena di ricordare che la Cina proietta il suo regime di oppressione interna anche all’estero, prendendo sistematicamente di mira dissidenti cinesi e oppositori politici tramite pratiche come intimidazione, rimpatrio forzato e la minaccia rappresentata dalla creazione in altri Stati di stazioni di polizia per mano degli apparati di sicurezza. Non sono registrate, ma la presenza di queste stazioni è ben nota in Italia e ha formato oggetto di interrogazioni parlamentari. Si ritiene infatti che siano operative in almeno quattro città italiane: Roma, Milano, Firenze e Prato.TUTTE LE NEWS DAL MONDO


Pechino adegua il suo apparato giuridico internazionale. Obiettivo: avere nuovi strumenti nelle controversie con gli altri Paesi. E un’arma in più rispetto agli Stati Uniti.
La Cina di Xi Jinping si pensa definitivamente impero. Di questa sua nuova autocoscienza del potere si è occupato un pregevole studio dell’Institut Montaigne, uno tra i più quotati centro studi francesi, a firma di Mathieu Duchatel e Georgina Wright. L’analisi, intitolata China’s Extraterritoriality: A New Stage of Lawfare, prende in esame l’utilizzo «fuori porta» che Pechino sta facendo del diritto come strumento strategico - da far valere appunto anche all’estero - per rafforzare la sua posizione globale e proteggere i propri interessi nazionali.
Sul piano storico e culturale, l’extraterritorialità del diritto è stata a lungo considerata simbolo di sottomissione perché riportava le menti al «secolo delle umiliazioni», il periodo della storia cinese che va dal 1839 al 1949, cioè dalla Prima guerra dell’Oppio (1839- 1842) fino alla fondazione della Repubblica popolare nel 1949, dopo la vittoria del Partito comunista nella guerra civile contro il Kuomintang. Durante questo secolo, la Cina subì una serie di offese politiche e perdite territoriali a causa di guerre, trattati rovinosi e ripetuti interventi stranieri, che portarono a una significativa perdita di sovranità e dignità nazionale. L’extraterritorialità del diritto era quella degli altri, dal momento che le potenze straniere erano di casa in Cina e vi applicavano le proprie leggi. Oggi questo paradigma è rovesciato e reinterpretato come mezzo per affermare una supremazia cinese.
Sul piano geopolitico, tutto ciò rappresenta una nuova fase del «lawfare», espressione che descrive la guerra guerreggiata a suon di leggi. In particolare, possiamo distinguere diverse principali direttrici. La prima è la difesa o ritorsione contro interventi esterni percepiti come interferenze rispetto alla strategia del Partito. La Cina utilizza per esempio strumenti legali per contrastare sanzioni economiche e restrizioni tecnologiche, principalmente provenienti dagli Stati Uniti. Per esempio, norme come la «Export Control Law» e le «Blocking Rules» mirano a ridurre l’impatto delle sanzioni straniere e proteggere le imprese del Dragone. Così il regolamento sulla lista delle entità inaffidabili del 2020 prende di mira aziende straniere che danneggiano gli interessi cinesi, mentre la legge contro le sanzioni straniere del 2021 permette di rispondere a misure economiche che fanno saltare la mosca al naso agli strateghi di Pechino.
In secondo luogo, il regime ricorre a norme extraterritoriali per giustificare azioni internazionali. È il caso delle rivendicazioni nel Mar cinese meridionale, dove le cronache danno conto con allarmante frequenza di fibrillazioni e incidenti. La strategia reattiva del gigante asiatico, sul piano legale, sta rapidamente cedendo il campo allo sviluppo di soluzioni offensive e coercitive, così da costringere altre nazioni o aziende a conformarsi alle sue politiche. Questo approccio riflette la rivalità sistemica con gli Stati Uniti e il desiderio cinese di riequilibrare l’influenza globale in proprio favore. A farne le spese potrebbe tuttavia essere l’Unione europea, che secondo l’analisi dell’Institut Montaigne non ha ancora adeguato il suo «arsenale» giuridico per contrastare una simile repressione transnazionale. Ancora una volta, in Europa, toccherà fare affidamento sui popoli più determinati. Come i lituani, che, aggrediti dalla Cina per i loro rapporti con Taiwan sul finire del 2021, ebbero il merito di prendere il toro per le corna, determinando un sussulto da parte della Commissione, obbligandola a una riflessione sulle soluzioni giuridiche attivabili in caso di «bullismo» da parte di Pechino.
Vale infine la pena di ricordare che la Cina proietta il suo regime di oppressione interna anche all’estero, prendendo sistematicamente di mira dissidenti cinesi e oppositori politici tramite pratiche come intimidazione, rimpatrio forzato e la minaccia rappresentata dalla creazione in altri Stati di stazioni di polizia per mano degli apparati di sicurezza. Non sono registrate, ma la presenza di queste stazioni è ben nota in Italia e ha formato oggetto di interrogazioni parlamentari. Si ritiene infatti che siano operative in almeno quattro città italiane: Roma, Milano, Firenze e Prato.