“No Other Land” ci impone di avere lo sguardo fisso su ciò che è intollerabile, e di agire

“No Other Land”, film vincitore dell’Oscar al miglior documentario e da oggi disponibile su MUBI, ci chiama a guardare nel cuore dell’ingiustizia, ci fa atterrare nel cuore del nulla, della terra, al suo stato più puro, mostrando come le tragedie che attraversano l’umano non abbiano bisogno di nulla per essere mostrate, se non l’enorme coraggio del dirle, appunto, del raccontarle, a parte di chi ne è testimone. L'articolo “No Other Land” ci impone di avere lo sguardo fisso su ciò che è intollerabile, e di agire proviene da THE VISION.

Apr 15, 2025 - 19:12
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“No Other Land” ci impone di avere lo sguardo fisso su ciò che è intollerabile, e di agire

Di questi tempi, quando qualcosa non mi piace vado sott’acqua. Lì sotto, per ora, tutto è calmo e silenzioso. L’unica cosa che si agita sono io, ma solo per poco. Poi, un metro alla volta, passa anche quello. Passa per forza, in acqua, se ci si vuole stare immersi bisogna arrendersi a seguire altre qualità dell’essere e dello stare. Mi sono resa conto che anche l’ormai famosissimo documentario No Other Land – vincitore come miglior documentario agli Oscar di quest’anno – accendeva in me questo desiderio di fuga, o di protezione. Mettere la testa sott’acqua. E, invece, in tutta la sua disarmante, drammatica semplicità, questo film – disponibile da oggi su MUBI – ci chiama a guardare nel cuore dell’ingiustizia, ci fa atterrare nel cuore del nulla, della terra, che è anche territorio, al suo stato più puro, mostrando come le tragedie che attraversano l’umano non abbiano bisogno di nulla per essere mostrate, se non l’enorme coraggio del dirle, appunto, del raccontarle, a parte di chi ne è testimone, in questo caso Basel Adra e Yuval Abraham, che appaiono anche nel film, e Rachel Szor ed Hamdan Ballal.

Girato dal 2019 al 2023 (poco prima dell’inizio del genocidio palestinese), il film documenta gli sforzi di Basel e delle altre famiglie della zona per opporsi alla distruzione da parte delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) del loro villaggio natale, Masafer Yatta, situato nel governatorato di Hebron in Cisgiordania. Basel sente infatti la chiamata a denunciare le violenze inaudite e le umiliazioni che giorno dopo giorno lui e gli altri palestinesi subiscono, sente di dover continuare a vivere nel solco dell’eredità etica di suo padre, che ora gestisce un distributore di benzina, ma che è sempre stato un attivista per i diritti del suo popolo, ingiustamente schiacciato. Essendo parte della Zona C della Cisgiordania, l’area è sotto il completo controllo civile e militare dell’IDF, che limita gli spostamenti della popolazione – i valichi possono essere attraversati solo da auto israeliane come recita il cartello, e in ogni caso ai palestinesi della zona tutte le automobili sono state sottratte dalle forze armate israeliane, e quindi possono in ogni caso spostarsi solo a piedi. Chi si espone in proteste pacifiche – armati solo di cartelloni e della propria voce – contro i soprusi di questa occupazione, viene aggredito, arrestato. Viene ripetuto spesso che i soldati sono vendicativi. Se li sfidi ti prenderanno di mira, torneranno a prenderti, a cercarti, proprio come succede a Basel.

Il film incorpora anche filmati d’archivio, girati dalla famiglia Adra nell’arco di una ventina d’anni, fra cui una visita di Tony Blair al villaggio nel 2009, per vedere la scuola che le famiglie, nonostante tutte le violenze, erano riuscite a costruire, facendo lavorare alla luce del sole donne e bambini, e gli uomini di nascosto di notte, in modo da non essere arrestati o malmenati. Dopo quella visita, durata pochissimi minuti, racconta Basel, la scuola non fu distrutta: è questo il potere, dice. Ed è incredibile, per noi, vedere come queste persone, vessate in maniera brutale e del tutto aleatoria, continuino a sopravvivere, riescano – a differenza di noi, che abbiamo tutto, a partire da un tetto sopra la testa – a trovare ragioni per cui valga la pena vivere, anche se Basel, in un momento di profondo sconforto, dopo l’arresto di suo padre, lascia emergere tutta la sua sorda disperazione, la tragedia di una vita costretta ad essere vissuta in trappola, in cui è impossibile spostarsi, viaggiare, scappare, vedere un’altro cielo, sognare un’altra vita, in cui è impossibile seguire gli studi che si sono fatti – Basel è avvocato, ma anche se andasse in Israele, potrebbe lavorare solo come muratore – una vita in cui, come ci è stato chiaro nell’ultimo anno: si aspetta di essere uccisi, cancellati dalla faccia della terra, della propria terra.

Masafer Yatta, secondo il governo di Israele, sarebbe “abusivo”, costruito su una presunta area di addestramento militare. Ma la verità è che il villaggio è attestato sulle carte geografiche fin dall’inizio dell’800, e che nonostante le molte richieste dei suoi abitanti Israele non ha mai concesso i permessi di costruzione. Infine, un’ingiunzione della Corte suprema di Israele ha respinto anche il ricorso pluridecennale degli abitanti contro la decisione di demolirlo, non riconoscendone l’esistenza. Così, nell’estate del 2019, arrivano le prime ruspe, che Basel e Yuval iniziano a filmare, giorno dopo giorno. Le mattine sono infatti scandite dall’arrivo di Ilan, un perito israeliano incaricato di sovrintendere l’espulsione, che consegna ai proprietari di turno l’avviso di demolizione, prontamente eseguita dai bulldozer con a guardia riservisti dell’IDF, pronti a sparare nel caso qualcuno cerchi semplicemente di salvare quel poco e niente che ha, come una cucina o un generatore, come succede ad Harun Abu Aram, che resta gravemente infermo, tetraplegico, in seguito allo sparo di un soldato israeliano.

A volte, i soldati danno loro nemmeno il tempo di tirare fuori di casa i pochi oggetti che hanno per salvarli dalle macerie. E in questo semplice, terribile gesto, è impossibile non rintracciare le memorie ci certe testimonianze della violenza nazista. Le famiglie escono, guardano distruggere la loro casa, si rifugiano nelle grotte della zona, qualcuno direbbe come topi, ma non è da intendersi in senso dispregiativo, si nascondono come farebbe qualsiasi animale in pericolo, per salvarsi la vita, e il giorno dopo, con enorme pazienza e rassegnazione, ricominciano a costruire la loro casa, fino alla prossima distruzione. Chi può si trasferisce in altri paesi, ma la maggior parte di loro, come ripete Shamia in arabo, la madre di Harun: “We have no other land”. Così lei si prende cura del figlio in una grotta, non potendo costruire un’altra casa né potendo guidare un’auto con cui andarlo a trovare in ospedale, a causa delle limitazioni imposte alla libertà di movimento dei palestinesi.

Yuval, giornalista israeliano di Be’er Sheva, che aiuta Basel a testimoniare le violenze che subisce costantemente il suo popolo a causa di Israele, viene accolto amichevolmente dagli abitanti del villaggio. Yuval parla anche arabo, e per questo racconta volevano entrasse nell’intelligence israeliana, ma non ha voluto. Anzi, dice che proprio studiando l’arabo ha iniziato a capire come stessero veramente le cose, ha aperto gli occhi. E trova incredibile che in così pochi in Israele la pensino come lui, capiscano la gravità di ciò che il loro governo sta facendo. Entrambi, per motivi simili ma diversi, comunque convergenti, provano una profonda frustrazione, ma sanno anche che stanno facendo tutto ciò che è in loro potere fare, anche se a volte non sembra abbastanza, sembra insufficiente. Anche se all’inizio sembra che le manifestazioni possano ridurre le demolizioni e la loro voce possa in qualche modo farsi sentire, dopo poco appare chiaro che sia una pausa momentanea, e che la distruzione avverrà inesorabilmente, aumentando il divario incolmabile delle condizioni di vita di questi due giovani uomini, che nulla hanno di diverso se non di essere nati dai lati opposti di un confine.

Nel frattempo cominciano a sorgere nelle zona nuovi insediamenti illegali israeliani, i cui coloni – armati fino ai denti – vessano ulteriormente la popolazione, protetti dall’IDF, danneggiando ulteriormente le case e le strutture rimaste e terrorizzando a morte gli abitanti. Lo stesso Yuval viene minacciato dai suoi connazionali, ripreso in video sui social come “traditore”, e al ritorno in Israele viene accusato durante un’apparizione televisiva di nutrire l’antisemitismo, adagio retorico, ideologico e propagandistico che purtroppo ormai conosciamo bene. Il film si conclude con una didascalia che ci comunica che è stato concluso prima degli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, e di come da allora le demolizioni a Masafer Yatta si siano ulteriormente intensificate, mostrando il video amatoriale di un assalto di coloni armati avvenuto il 13 ottobre 2023, in cui uno spara a bruciapelo proprio a un cugino di Basel, Zakriha Adra, disarmato.

I registi sono riusciti a dar forma a un’opera potente perché libera da qualsiasi retorica. Mostrano semplicemente ciò che accade, ciò che provano le persone, e a differenza di altri resoconti di situazioni di guerra o di violenza, in questo caso si rimane colpiti per come sia spontaneo immedesimarsi ed empatizzare con esseri umani che apparentemente hanno ben poco in comune con noi, con la nostra cultura, le nostre abitudini, la nostra vita, e invece sono identici a noi, perché provano le stesse emozioni, hanno gli stessi sogni, gli stessi desideri, gli stessi bisogni, come tutti, a prescindere dalla forma degli occhi, dalla lingua che si parla e dal colore della pelle. Ammetto che quando mi veniva ripetuto a scuola, durante la guerra del Kossovo, mi sembrava una banalità, una cosa scontata, forse perché i bambini portano dentro di sé questa verità assoluta che ci accomuna in quanto specie. Purtroppo questa consapevolezza mano a mano che si cresce, che si soffre, che si ha paura, che si prova rabbia rischia di essere dimenticata, perduta, ci convinciamo di essere diversi gli uni dagli altri, ci convinciamo che gli altri siano nostri nemici, così l’odio si propaga. Di questi tempi sembra che questo processo avvenga ancora più in fretta, come se ci trovassimo nel bel mezzo di una pandemia ancora più grave, letale e contagiosa, che ciclicamente torna ad affliggere l’umanità.

C’è una scena che mi ha colpita molto nel film, è una scena semplice, in cui l’enormità di ciò che stanno vivendo Basel e Yuval si riduce all’improvviso inquadrata in uno scenario che per tutti è famigliare: l’abitacolo di una macchina, di notte. Basel dice a Yuval – senza alcun rancore, ma con un quieto prendere atto delle cose – che lui non si rende conto veramente di ciò che stanno vivendo, altrimenti non avrebbe tutta questa fretta di farsi sentire, di riuscire a smuovere le coscienze, non avrebbe tutta quella bruciante frustrazione. Sono decenni che viviamo tutto questo, gli dice Basel. E continua dicendogli che è “un entusiasta”. E in quel momento Basel sta parlando, nel bene e nel male, a tutti noi spettatori. Siamo ingenuamente spinti dalla sensazione di poter avere potere, ma paradossalmente questa visione ci illude, ci impedisce di vedere veramente come stanno le cose, come una specie di lente distorta.

E allora, forse, il gesto più radicale che possiamo compiere oggi è proprio questo, non distogliere lo sguardo, restare, concentrare la nostra attenzione sul male che noi esseri umani, che esseri umani uguali a noi, perché non bisogna cadere nella trappola opposta, ovvero che gli israeliani siano diversi da noi, possono arrivare a compiere. Come in meditazione, si osserva il dolore, la rabbia, la violenza, il disagio, e invece di fuggire, di voltarsi dall’altra parte, di mettere la testa sotto la sabbia o sott’acqua, ci si resta insieme, per comprenderlo, non solo razionalmente, ma a un livello ancora più profondo. Dobbiamo sforzarci di restare con lo sguardo fisso su ciò che è intollerabile, anche se ci lacera, restare ad ascoltare chi ha ancora la forza di raccontare, come Basel e Yuval. Perché raccontare serve, serve sempre, ma deve esserci qualcuno disposto ad ascoltare, che è un atto altrettanto politico, necessario. Ci sono forze enormemente più grandi di noi, lo sappiamo, contro cui le nostre azioni sembreranno costantemente irrisorie, minime, eppure è necessario compiere queste azioni, è necessario restare attenti, consapevoli, “svegli”. Come Basel, che anche quando si sente completamente inutile, resiste, perché sa che si tratta di percorrere una lunga distanza, e che è necessario dosare le forze e le energie, non perdere di vista la meta, per quanto distante essa sia, è necessario essere consapevoli di proporzioni, misure e prospettive. Sarebbe ingenuo pensare che un uomo, o anche un intero villaggio, possa fermare una ruspa o un carro armato, fino a risultare ottuso, stupido. Basel lo sa bene, ha questa consapevolezza radicata in tutto il suo essere. Quello che si può fare – e che è stato fatto con No Other Land –  è vedere e raccontare e fare in modo che non venga dimenticata né la Storia, né nessuna storia. Anche questo è agire, è forse la prima azione possibile, quella da cui poi scaturiscono tutte le altre.


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