Magistratura al governo
Almeno dalla caduta della Prima repubblica, il sistema giudiziario ha cercato di regolare la politica italiana a colpi di indagini che quasi sempre non hanno portato a niente. E non sono opinioni, è storia. Il primo a denunciarlo fu Francesco Cossiga.Il primo a sostenerlo fu Francesco Cossiga, nel lontano 1995. «In Italia non importa chi prende più voti», disse l’ex presidente, con l’abituale, spericolata chiarezza: «In Italia governa solo chi control la la magistratura». Trent’anni dopo, siamo esattamente allo stesso punto. Perché è vero che l’indagine contro Giorgia Meloni, accusata con il ministro della Giustizia Carlo Nordio di favoreggiamento e peculato per la liberazione del generale libico Osama Almasri, ricercato dal Tribunale penale internazionale per crimini contro l’umanità, potrebbe essere «dovuta» (e quindi lontana da intenti di potere), come sostiene il pro curatore di Roma Francesco Lo Voi che quell’indagine ha reso pubblica, trasmettendo la al Tribunale dei ministri. Ma quell’inchiesta sembra soprattutto «voluta», come sostiene oltre metà della politica e parte della stessa magistratura. Sembra «voluta» perché arriva proprio mentre il centrodestra in Parlamento approva in prima lettura la riforma che finalmente impone la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, e mentre le toghe più sindacalizzate per quella modifica dell’ordinamento contestano platealmente Nordio e il governo. Dura da oltre trent’anni, il contrasto fra parte della magistratura e la politica. Ma tra i due poteri dello Stato, almeno finora, il più forte è il primo. È così sicuramente dal 1993, quando un Parlamento sotto scacco per le inchieste di Mani Pulite fu indotto ad abolire l’immunità per deputati e senatori, così esponendoli a ogni inchiesta. Da allora, nessuno ha osato ripristinare l’immunità (e anche l’ipotesi appena lanciata da Forza Italia, pur se sostenuta dal ministro della Difesa Guido Crosetto, sembra meno di un ballon d’essai), e non c’è stato mese in cui un processo penale non abbia coinvolto un politico «sgradito». È storia. Dall’ordine di comparizione per l’accusa (infondata) di corruzione, che a fine 1994 contribuì a far cadere il primo governo Berlusconi, fino al caso Almasri oggi, sono innumerevoli le inchieste penali inquinate da fattori politici. Nella grande maggioranza i colpi di maglio giudiziari hanno danneggiato il centro destra, ma non hanno risparmiato nemmeno quei settori del centrosinistra che hanno inutilmente cercato di riequilibrare il sistema. Come tra il 2007 e il 2008 accadde a Clemente Mastella, Guardasigilli nel primo governo di Romano Prodi. Pochi lo ricordano, ma la vicenda è istruttiva. Mastella aveva varato una riforma bipartisan sulle intercettazioni che alla magistratura sindacalizzata non garbava affatto. La legge stabiliva il divieto di pubblicazione di intercettazioni e atti giudiziari, anche riassunti, sino alla conclusione delle indagini preliminari: la violazione del segreto comportava fino a cinque anni di reclusione se si trattava dei «pubblici ufficiali responsabili», cioè i procuratori della Repubblica e i loro «delegati», dai sostituti procuratori fino agli agenti di polizia, mentre sui giornalisti pendeva la minaccia di ammende fino a 100 mila euro. La legge stabiliva anche una durata massima di 15 giorni per le intercettazioni, con possibilità di proroghe fino a tre mesi, e affidava al la Corte dei conti il controllo puntuale sulla spesa decisa dalle singole Procure. Nessuno oggi ricorda, e l’amnesia collettiva è sorprendente, che la riforma Mastella fu approvata a sorpresa dalla Camera il 17 aprile 2007, con 447 voti a favore, sette astenuti e nessun contrario. Prima che potesse passare anche in Senato, però, il 16 gennaio 2008 tutto fu bloccato dalla magistratura, che ottenne le dimissioni del ministro della Giustizia con l’annuncio di un’inchiesta su di lui per truffa e appropria zione indebita, e con l’arresto di sua moglie. Quattro giorni dopo anche il governo Prodi cadde, e la legislatura franò trascinando con sé la riforma. Negli ultimi 30 anni, la magistratura ha manifesta to il suo potere non soltanto con ministri della Giustizia ma anche con Palazzo Chigi: su 12 presidenti del Consiglio, gli indagati sono stati sette. Certo, nessuno di loro potrà mai dire di essere stato nell’occhio del ciclone come Berlusconi, colpito da un numero statisticamente assurdo d’inchieste e nel novembre 2011 costretto a cadere anche a causa del Rubygate, terminato nel 2015 con l’ennesima assoluzione. Ed è vero che alcuni accertamenti giudiziari hanno sfiorato anche i leader della sinistra. Ma in questo campo le più aggressive e insistenti hanno coinvolto la parte più moderata di essa, di origine democristiana o socialista, a partire dall’ex presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico, Matteo Renzi. È questo che 30 anni fa intendeva Cossiga. E cioè che l’ordine giudiziario nel suo insieme risponde a logiche corporative, ma la sua parte più i


Almeno dalla caduta della Prima repubblica, il sistema giudiziario ha cercato di regolare la politica italiana a colpi di indagini che quasi sempre non hanno portato a niente. E non sono opinioni, è storia. Il primo a denunciarlo fu Francesco Cossiga.
Il primo a sostenerlo fu Francesco Cossiga, nel lontano 1995. «In Italia non importa chi prende più voti», disse l’ex presidente, con l’abituale, spericolata chiarezza: «In Italia governa solo chi control la la magistratura». Trent’anni dopo, siamo esattamente allo stesso punto. Perché è vero che l’indagine contro Giorgia Meloni, accusata con il ministro della Giustizia Carlo Nordio di favoreggiamento e peculato per la liberazione del generale libico Osama Almasri, ricercato dal Tribunale penale internazionale per crimini contro l’umanità, potrebbe essere «dovuta» (e quindi lontana da intenti di potere), come sostiene il pro curatore di Roma Francesco Lo Voi che quell’indagine ha reso pubblica, trasmettendo la al Tribunale dei ministri. Ma quell’inchiesta sembra soprattutto «voluta», come sostiene oltre metà della politica e parte della stessa magistratura. Sembra «voluta» perché arriva proprio mentre il centrodestra in Parlamento approva in prima lettura la riforma che finalmente impone la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, e mentre le toghe più sindacalizzate per quella modifica dell’ordinamento contestano platealmente Nordio e il governo. Dura da oltre trent’anni, il contrasto fra parte della magistratura e la politica. Ma tra i due poteri dello Stato, almeno finora, il più forte è il primo. È così sicuramente dal 1993, quando un Parlamento sotto scacco per le inchieste di Mani Pulite fu indotto ad abolire l’immunità per deputati e senatori, così esponendoli a ogni inchiesta. Da allora, nessuno ha osato ripristinare l’immunità (e anche l’ipotesi appena lanciata da Forza Italia, pur se sostenuta dal ministro della Difesa Guido Crosetto, sembra meno di un ballon d’essai), e non c’è stato mese in cui un processo penale non abbia coinvolto un politico «sgradito». È storia. Dall’ordine di comparizione per l’accusa (infondata) di corruzione, che a fine 1994 contribuì a far cadere il primo governo Berlusconi, fino al caso Almasri oggi, sono innumerevoli le inchieste penali inquinate da fattori politici. Nella grande maggioranza i colpi di maglio giudiziari hanno danneggiato il centro destra, ma non hanno risparmiato nemmeno quei settori del centrosinistra che hanno inutilmente cercato di riequilibrare il sistema. Come tra il 2007 e il 2008 accadde a Clemente Mastella, Guardasigilli nel primo governo di Romano Prodi. Pochi lo ricordano, ma la vicenda è istruttiva. Mastella aveva varato una riforma bipartisan sulle intercettazioni che alla magistratura sindacalizzata non garbava affatto. La legge stabiliva il divieto di pubblicazione di intercettazioni e atti giudiziari, anche riassunti, sino alla conclusione delle indagini preliminari: la violazione del segreto comportava fino a cinque anni di reclusione se si trattava dei «pubblici ufficiali responsabili», cioè i procuratori della Repubblica e i loro «delegati», dai sostituti procuratori fino agli agenti di polizia, mentre sui giornalisti pendeva la minaccia di ammende fino a 100 mila euro. La legge stabiliva anche una durata massima di 15 giorni per le intercettazioni, con possibilità di proroghe fino a tre mesi, e affidava al la Corte dei conti il controllo puntuale sulla spesa decisa dalle singole Procure. Nessuno oggi ricorda, e l’amnesia collettiva è sorprendente, che la riforma Mastella fu approvata a sorpresa dalla Camera il 17 aprile 2007, con 447 voti a favore, sette astenuti e nessun contrario. Prima che potesse passare anche in Senato, però, il 16 gennaio 2008 tutto fu bloccato dalla magistratura, che ottenne le dimissioni del ministro della Giustizia con l’annuncio di un’inchiesta su di lui per truffa e appropria zione indebita, e con l’arresto di sua moglie. Quattro giorni dopo anche il governo Prodi cadde, e la legislatura franò trascinando con sé la riforma. Negli ultimi 30 anni, la magistratura ha manifesta to il suo potere non soltanto con ministri della Giustizia ma anche con Palazzo Chigi: su 12 presidenti del Consiglio, gli indagati sono stati sette. Certo, nessuno di loro potrà mai dire di essere stato nell’occhio del ciclone come Berlusconi, colpito da un numero statisticamente assurdo d’inchieste e nel novembre 2011 costretto a cadere anche a causa del Rubygate, terminato nel 2015 con l’ennesima assoluzione. Ed è vero che alcuni accertamenti giudiziari hanno sfiorato anche i leader della sinistra. Ma in questo campo le più aggressive e insistenti hanno coinvolto la parte più moderata di essa, di origine democristiana o socialista, a partire dall’ex presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico, Matteo Renzi. È questo che 30 anni fa intendeva Cossiga. E cioè che l’ordine giudiziario nel suo insieme risponde a logiche corporative, ma la sua parte più impegnata e sindacalizzata (quella che l’ex capo dello Stato temeva) fiancheggiava allora il Partito comunista. Questa indicibile verità fu indirettamente confermata nel 1994 a Panorama da un magistrato milanese, membro del Pool di Mani Pulite, che in gioventù era stato iscritto al Pci. Quel sostituto procurato re raccontò che subito dopo la laurea in giurisprudenza, raggiunta nel 1975, aveva incontrato il carismatico segretario della sua federazione provinciale: «Compagno segretario» gli aveva detto, «io vorrei fare l’avvocato. Pensi che in quel ruolo potrei esse re utile al Partito?». Ma l’altro aveva obiettato: «No, compagno, di avvocati ne abbiamo fin troppi. Ora ci servono magistrati: tu farai il concorso per entrare in magistratura, e vedi di vincerlo». Pochi anni prima, nel 1964, era nata la corrente di Magistratura democratica: una sinistra giudiziaria che professava esplicitamente «l’uso alternativo del diritto per condizionare la giurisdizione in senso progressista». Vogliamo banalizzare quel programma? Significava pie gare l’esercizio della giustizia a fini utili alla sinistra, soprattutto al Pci. E non è certo un mistero che negli anni Settanta e Ottanta la magistratura, come la scuola, l’università, il mondo della cultura e dello spettacolo, e lo stesso giornalismo, furono oggetto di un intelligente ed efficace lavorìo di occupazione da parte del Partito. È vero che oggi tutto è cambiato, che le antiche fedeltà sono molto meno for ti, che le correnti giudiziarie sono diverse e ne sono nate di nuove, ideologicamente vi cine a partiti in parte nuovi e diversi da quelli di un tempo. Ma certi legami preferenziali sono ancora lì. E in prevalenza continuano a riguardare soprattutto la sinistra: quella del Pd e del Movimento Cinque stelle. Basta osservare i giochi e i rapporti di forza dentro all’Associazione nazionale magistrati, l’organo di rappresentanza della categoria. Alle ultime elezioni del 27 gennaio, indette per assegnare i 36 seggi dell’Anm, la corrente più moderata di Magistratura indipendente ha preso 2.065 preferenze e 11 seggi, mentre i centristi di Unicost hanno incassato 1.560 voti e otto seggi. Sull’altro fronte, quello della toghe di sinistra che soffiano sul fuoco delle proteste e hanno ottenuto lo sciopero antigovernativo del 27 febbraio, a Md sono arrivati 1.081 voti e sei seggi, e ad Area 1.803 voti e nove seggi. Senza i raggruppamenti progressisti non è possibile alcun accordo di vertice. Quindi conserve ranno la presa sull’Anm. Luca Palamara, l’ex magistrato che dell’Anm fu presidente tra il 2008 e il 2012, e che per quasi un decennio fu il potente le ader di Unicost, resta uno tra i massimi esperti del settore. Ebbene, per Palamara non è improbabile che la sinistra, pur in minoranza nell’Anm, ottenga il prossimo presidente, e definisce «forte» il nome di Marco Patarnello, lo scorso ottobre alla ribalta della cronaca per un’email in cui definiva Giorgia Meloni «più pericolosa di Berlusconi», e oggi eletto per Md con 234 preferenze. Palamara, che dal 2014 al 2018 è stato anche influentissimo membro del Consiglio superiore della magistratura, nel 2020 è stato espulso dall’ordine giudiziario per lo scandalo causato dalla pubblicazione delle sue chat tele foniche, da cui erano emerse centinaia di trattative sommerse per distribuire promo zioni e prebende tra le correnti nel Csm. Ma è anche l’uomo che nel 2022 ha descritto in un saggio il sistema di potere di cui aveva fatto parte. In quel libro, intitolato Il Sistema, Palamara ha piazzato queste parole sconvolgenti: «Bastano un Procuratore in gamba, un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria bravo e ammanicato con i servizi segreti. Se costoro hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti, e soprattutto con il giudice che deve decidere i processi, si crea un gruppo che ha più potere del Parlamento, del premier e del governo intero». Parole vere, oltre che assai inquietanti. Proprio come quelle pronunciate da Cossiga nel 1995. Ma allo stesso modo sottovalutate oggi dalla politica.