L’impazienza degli esclusi dal negoziato sull’Ucraina (di F. Bascone)
La frustrazione dei Paesi dell’Ue per l’esclusione dal dialogo sulla pace in Ucraina è comprensibile. Ma questa esclusione era inevitabile. Anzitutto perché sulla scena mondiale l’Europa nel suo insieme ha un peso politico vicino allo zero e comunque molto inferiore a quello degli Stati Uniti, e non è considerata da Mosca un interlocutore nella questione […]

La frustrazione dei Paesi dell’Ue per l’esclusione dal dialogo sulla pace in Ucraina è comprensibile. Ma questa esclusione era inevitabile. Anzitutto perché sulla scena mondiale l’Europa nel suo insieme ha un peso politico vicino allo zero e comunque molto inferiore a quello degli Stati Uniti, e non è considerata da Mosca un interlocutore nella questione ucraina. In secondo luogo perché una trattativa di questo genere non può che essere bilaterale e confidenziale. E infine perché noi europei siamo riluttanti a piegarci alla logica della Realpolitik; l’insistenza di vari governi sulla prospettiva di ingresso dell’Ucraina nella Nato ne è la prova.
Salvare il salvabile
Nelle circostanze attuali, che non sono quelle del 2022 o del 2023, dato che l’Ucraina non è più in grado di frenare a lungo l’avanzata delle forze russe, Kiev non ha altre opzioni per metter fine ai combattimenti che il tentativo negoziale di Trump. Non certo per ottenere una pace giusta, ma per salvare il salvabile. La perdita del Donbass (per non parlare della Crimea) è ineluttabile. Zelensky lo sa, ma per lui è meglio vedersela imporre da Washington che accettarla in un negoziato diretto.
L’esito dell’azione diplomatica americana è tutt’altro che scontato. Dato il personaggio, ci si dovrebbe aspettare che Trump si impegni a fondo, esercitando tutte le pressioni possibili, per giungere a un risultato rapido e a un compromesso territoriale relativamente accettabile, spinto dalla volontà di dimostrare di essere un Presidente forte, a capo di una potenza tornata ad essere temibile. Le sue recenti dichiarazioni allineate sulla propaganda di Mosca sono sembrate andare nella direzione opposta, quasi di complicità con l’aggressore; potrebbe però essere una sua personale scelta tattica, una “captatio benevolentiae”, preludio a una trattativa energica. Può darsi che tale miscela di lusinghe e pressioni si riveli un fallimento, come fu con il giovane dittatore nord-coreano. Putin potrebbe essere irritato ma non impressionato dalle minacce di Trump e del suo vice, prendere tempo, e proseguire la sua avanzata per raggiungere sul terreno i suoi obiettivi territoriali, da ratificare poi con un accordo di capitolazione russo-ucraino.
In sostanza, la trattativa avviata da Trump – lo si deve riconoscere – con una buona dose di lucido realismo potrà essere considerata un successo, e un aiuto all’Ucraina, se condurrà rapidamente ad un armistizio che consolidi la linea del fronte attuale senza ulteriori concessioni, a parte la rinuncia di Kiev ad entrare nella Nato, e qualche limitato arretramento (ad esempio il ritiro dalla centrale nucleare di Zaporizhya) in cambio del ritiro ucraino dalla regione di Kursk.
Meriterà un voto più mediocre se durerà più a lungo, con un aumento del prezzo in vite umane, e permetterà a Putin di conseguire sul campo di battaglia, o addirittura al tavolo dei negoziati, la piena realizzazione dei sopra accennati obiettivi territoriali: la totalità delle quattro regioni sinora conquistate in buona parte ma non interamente (eppure formalmente annesse sin dal 2022); e se farà importanti concessioni all’altro obiettivo di Putin, quello della “smilitarizzazione” dell’Ucraina, cioè forti limitazioni ai suoi armamenti. Il terzo obiettivo, la “denazificazione”, che sembrava doversi ridurre a una esclusione di forze nazionaliste radicali da elezioni e cariche pubbliche e il divieto di simboli neonazisti, mentre inizialmente era intesa come “regime change”, dopo la rottura fra Trump e Zelensky potrebbe tradursi in una forzata rinuncia di quest’ultimo a qualsiasi attività politica, se non addirittura nel suo esilio.
La rinuncia di Zelensky a recuperare i territori orientali (pur senza riconoscerne formalmente l’annessione) e ad entrare nella Nato è oggi bilanciata dalla sua richiesta di forti garanzie occidentali, ad evitare una futura ripresa dell’aggressione russa: e cioè non solo una promessa di difesa collettiva secondo l’art. 51 dello Statuto Onu, già problematica perché Mosca la vedrebbe come un articolo 5 del Patto Atlantico che rientra dalla finestra, ma anche lo spiegamento di una gigantesca forza di interposizione europea lungo la nuova frontiera.
Questa condizione è totalmente irrealistica. Per una massiccia presenza militare di Paesi Nato lungo il nuovo “limes” manca sia il consenso russo che la disponibilità degli Stati europei (gli americani hanno già annunciato il loro sganciamento). Se Mosca finirà per accettare un’operazione di peacekeeping composta da qualche migliaio di osservatori e soldati con armamento leggero (vedremo quali nazionalità saranno gradite), sarà certamente una prova di credibilità dell’armistizio, non però la garanzia militare a lungo termine che Zelensky auspica. L’Ucraina dovrà accontentarsi di una deterrenza ambigua, analoga a quella praticata dagli Usa sinora a favore di Taiwan.
Un male necessario
Affinché questa deterrenza incerta abbia un minimo di credibilità, è purtroppo indispensabile che gli europei facciano quel balzo in avanti nelle proprie dotazioni militari che da tempo ci chiede l’America. Dobbiamo farlo anche a prescindere dai timori dell’Ucraina. È necessario per impedire che Mosca ceda alla tentazione di intraprendere “operazioni militari speciali” contro Paesi membri della Nato, anche solo allo scopo di mettere alla prova la solidità dell’Alleanza.
Infatti, anche supponendo che l’annessione della Crimea e poi del Donbass fossero dettate da pulsioni irredentiste e non il preludio a una più generale politica espansionistica (vedi la Germania del 1938), è ragionevole prevedere che all’indomani di una vittoria costata centinaia di migliaia di caduti (come dopo la seconda guerra mondiale, sia pure su scala più ridotta) Mosca tenda a sfruttare lo slancio patriottico e l’aumentata capacità produttiva della sua industria bellica per affermare la propria egemonia in Europa e la parità con gli Stati Uniti.
La deterrenza è un male necessario, al quale noi europei ci rassegniamo con riluttanza. Non è in antitesi alla faticosa ricerca di un modus vivendi con la Russia come fu il processo di Helsinki avviato l’anno dopo l’invasione della Cecoslovacchia. Anzi, ne è il presupposto.
È nel nostro interesse non una Russia in castigo e in preda al revanscismo, ma soddisfatta del rapporto paritario con l’America e delle recenti conquiste territoriali, interessata a riprendere la collaborazione economica con l’Occidente, previa revoca delle sanzioni. L’Europa ci metterà anni a digerire l’idea di una normalizzazione con l’aggressore. Nel frattempo non è forse un male che si instauri quella intesa fra Trump e Putin che a noi appare complice e cinica (c’è chi evoca Jalta), ma che può avere una funzione stabilizzatrice.