La rivincita dell’euro I debiti sovrani conquistano il mercato
O ra che il re è morto, chi potrà cingerne la corona? L’incipit di sapore shakesperiano si adatta, con qualche fantasia, all’attuale situazione sui mercati valutari globali. Il re in questione è il dollaro sotto pressione insieme ai Treasury, intorno gli si affannano le principali monete che avvertono l’opportunità ma sono tagliate fuori dalla successione […] L'articolo La rivincita dell’euro I debiti sovrani conquistano il mercato proviene da Iusletter.

O ra che il re è morto, chi potrà cingerne la corona? L’incipit di sapore shakesperiano si adatta, con qualche fantasia, all’attuale situazione sui mercati valutari globali. Il re in questione è il dollaro sotto pressione insieme ai Treasury, intorno gli si affannano le principali monete che avvertono l’opportunità ma sono tagliate fuori dalla successione per motivi storici (sterlina), di isolamento (franco svizzero e yen giapponese), di scarsa convertibilità (yuan cinese). E poi c’è l’euro: avrebbe le caratteristiche per ambire al trono, e sarebbe una svolta epocale. L’Europa, purché si presenti unita ha una forza uguale agli Stati Uniti: istituzioni solide (Commissione, unità di controllo, Bce), sistema legale certo, multilateralismogarantito.
LA FORZA DELL’EURO
Così l’euro, che trae e dà forza alle economie retrostanti, ha saputo conquistarsi in pochi anni il secondo posto fra le valute di riserva mondiali con il 20% dietro il 60% del dollaro (in calo dal 72% di inizio secolo) relegando tutti gli altria “fette” molto minori. La prova che lo scenario sta cambiando si è avuta il 2 aprile, giorno delle maxi- tariffe, «quando — scrive Martin Wolf sul Financial Times — Trump si è rivelato in tutta la sua follia». Lo sconvolgimento degli equilibri ha portato a un’impennata dei rendimenti dei Treasury, tradizionale “safe asset” di ogni crisi stavolta tradito, dal 4 al 4,4 per cento (con valori in calo). La fuga ha portato a una discesa del 5% del dollaro, che invece abitualmente la domanda di Treasury portava in alto. Una doppia crisi inedita, mentre le borse Usa crollavano. Nei giorni successivi, la situazione si è in parte riequilibrata (ciò non ha impedito che Wall Street registrasse il peggior mese dalla crisi del 2008 con lo S&P giù dell’8 per cento) grazie alla sospensione fino al 9 luglio dei dazi.
Ma è un episodio-chiave per comprendere il nuovo ordine disegnato da Trump, «un ordine basato sull’incertezza», spiega Angelo Baglioni, economista internazionale della Cattolica. «L’indefinitezza provocata dalla fase critica che sta vivendo il mercato del debito pubblico statunitense, è la conseguenza delle politiche in corso. Iflussi di capitali in uscita dagli Usa si riversano però solo in parte sull’area-euro, che potrebbe intercettarne di più se disponesse di un titolo del debito pubblico federale con un mercato abbastanza ampio: il safe asset europeo di cui si parla da tempo, che esiste solo in una misura minima».
È una beffa che proprio adesso i titoli comunitari siano limitati agli 800 miliardi del NextGenEU e poco più. «Se si fosse attivato il mercato unico della finanza, unificati gli organismi di controllo, insomma se si fosse realizzato quel momento “hamiltoniano” tanto invocato, la situazione sarebbe ben diversa e tutti potremmo ora beneficiare di ben altre risorse comuni », riflette Giampaolo Galli, direttoredell’Osservatorio dei contipubblici.
EMISSIONI RECORD
Peraltro le emissioni dei singoli Paesi europei procedono speditamente. Perfino la Grecia ha già piazzato (nei primi quattro mesi) titoli per l’80% del suo fabbisogno annuale, compresi 2 miliardi di buoni trentennali per i quali servì un’autorizzazione speciale da parte della Bce nella notte dell’ultimo salvataggio (15 agosto 2015). Anche l’Italia si difende: ha emesso il 47% del fabbisogno previsto, lo spread è ai minimi di tre anni e a fine mese arrivano altri Btp Italia. Sarà anche per la “prudenza” rivendicata dal ministro Giorgetti. In totale, l’Eurozona ha emesso 600 miliardi di titoli pubblici, più del doppio di quanti ce n’erano solo da rinnovare. Ora si apre la partita tedesca, tutta da giocare con almeno 500 miliardi di nuovi titoli in arrivo, non si sa però in quali tempi. Sono tutti euro in afflusso in Europa, e il mercato diventa meno sottile: forse l’occasione per il rilancio dell’euro non è ancora saltata.
Anche sul fronte Trump, dopo l’aprile nero è arrivata la schiarita, come testimoniano le borse: l’accordo Usa-Uk di giovedì scorso, l’incontro in Svizzera nel weekend fra una delegazione commerciale americana e una cinese, l’annuncio di un meeting in settimana fra Trump e Ursula von der Leyen. Eppure qualcosa di non secondario è accaduto: si è dimostrata la fragilità finanziaria degli Stati Uniti. È emerso che «la posizione patrimoniale netta con l’estero, cioè la differenza tra le attività e le passività finanziarie di un Paese compresi i settori pubblico e privato, negli Stati Uniti è passata da marginalmente negativa alla fine del XX secolo a un passivo dell’ 80% del Pil», spiega Matteo Ramenghi, chief investment officer di Ubs Italia. «Questa differenza per la zona euro è appena positiva, per l’Italia è positiva per oltre il 12% del Pil. Gli Stati Uniti sono molto più indebitati verso il resto del mondo: il solo indebitamento pubblico (123% del Pil, livello più alto dal 1946) ha comportato disavanzi fiscali dal 2008 allo scorso anno in media del 6,3%, il doppio della zona euro». Se questo era compensato dalla copiosità di dollari che piovevano sulle attività in esso denominate, il peso della valuta americana è in discesa «e da oltre tre anni le banche centrali, soprattutto dei Paesi Brics, diversificano in oro in quantità ingente».
IL DEFICIT USA
Aggiungiamoci scossoni della portata di quello dei dazi e la tempesta è perfetta. «In un pianeta dove i soli debiti pubblici sfiorano i 100 trilioni — aggiunge Sergio Vergalli, docente di economia politica all’Università di Brescia — i mercati leggono l’affidabilità di un Paese anche dal Pil presente e futuro. È stato così per la Grecia quando venne aiutata, e per l’Italia quando le speranze di crescita, all’alba dell’euro con i governi Prodi e le tasse pro-Europa promesse, erano migliori. È così ora per gli Usa: con un deficit federale di 1,8 trilioni, a reggere le prospettive sono state finora la fiducia nel dollaro e la crescita. Fattori che ora vengono meno: non dimenticate che il primo trimestre si è chiuso a — 0,3%».
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