Kassandra al TBQ: Roberta Lidia De Stefano reinterpreta il mito
Teatro Biblioteca Quarticciolo: Roberta Lidia De Stefano porta in scena la sua Kassandra dopo il successo blues L'articolo Kassandra al TBQ: Roberta Lidia De Stefano reinterpreta il mito proviene da Globalist.it.

di Alessia de Antoniis
Reduce dalle repliche di fine marzo del suo toccante ‘Dream a little dream – Sogno diversamente blues’ allo Spazio Diamante, un viaggio catartico nelle radici del blues femminile, Roberta torna ora in scena, al Teatro Biblioteca Quarticciolo, il 17 e 18 maggio, con un’altra figura femminile potente e fuori dagli schemi: Kassandra.
Insieme alla regista Maria Vittoria Bellingeri, Roberta ci regala una rilettura contemporanea del mito di Cassandra, plasmata dalla penna di Sergio Blanco. Una Kassandra fluida, immigrata, spudorata, che usa il corpo come strumento di lotta e la parola come un pugno nello stomaco contro le ipocrisie del nostro tempo. Un personaggio che, come le grandi blues women evocate in ‘Dream a little dream’, porta con sé il peso di una verità scomoda e la forza di una voce che non si piega.
Attrice, autrice e cantante diplomata alla Paolo Grassi, Roberta Lidia De Stefano ha collaborato con importanti nomi del teatro e del cinema e fondato il collettivo Le Brugole. La sua versatilità artistica spazia dai classici al contemporaneo, con un focus sulla biopolitica dei corpi e delle voci, ed è anche attiva nella formazione teatrale.
Abbiamo raggiunto Roberta Lidia De Stefano durante le prove di Kassandra.
Lo spettacolo è descritto come un “diario blues” e una “seduta spiritica” delle antenate blues. Come è nato il desiderio di portare in scena proprio queste specifiche figure del blues – Bessie Smith, Billie Holiday? C’è stata una particolare artista che ha fatto scattare la scintilla per questo progetto?
Si, Janis Joplin. Volevo raccontare una storia di eredità artistica femminile e mi ha molto colpito l’aneddoto in cui Janis Joplin a trent’anni dalla morte di Bessie Smith, fece fare un epitaffio sulla sua tomba: “qui giace la più grande cantante blues al mondo: the greatest blues singer in the world will never stop singing”. Lo trovo un bellissimo gesto, che avrebbe potuto fare una nipote nei confronti di sua nonna. Ci ho visto senso di appartenenza e simbolo di generosità, la stessa a cui a volte non si riesce a mettere un freno. Quella profonda generosità artistica che a volte diventa persino autodistruttiva.
Quali delle loro battaglie sono ancora da condividere?
Le battaglie sono le stesse, purtroppo, così come le storie che raccontiamo. Il mio punto di vista in questo lavoro è più un desiderio di avvicinamento alla Virtù. Necessariamente attraverso il vizio. Mai perdendo la memoria di ciò che le donne (nere) hanno dovuto conquistarsi per avere un posto nella famiglia della musica, del teatro e dell’arte in generale.
Qual è il filo conduttore che lega queste figure? E come si legano a concetti come la “non appartenenza” il “non sentirsi mai all’altezza”? Sono problemi di grande attualità…
Il filo conduttore è la Voce senz’altro. Con tutto il simbolismo che questa parola enorme porta con sé. Da artista ad un certo punto provi a capire meglio chi vuoi essere. Ci provi almeno. Tutte abbiamo dei modelli di riferimento che ci hanno “educato” nella nostra formazione. Poterli portare in scena è come se fosse sempre un po’ “la notte di Natale”, ovvero quel momento dove ci si ritrova tutte riunite attorno all’albero, anche genealogico. È il tempo della festa ma anche del confronto dove “la tua famiglia” ti chiede un po’ il conto…
Accanto alle grandi blues women, si parla di un “universo maschile fiacco, manipolatore e sfruttatore”. Quanto siamo ancora negli anni 60 e 70?
Da tanti punti di vista erano meglio gli anni 60/70 era un’epoca di grande libertà, curiosità e dove ci si poteva ancora illudere che fare politica e fare arte fossero gesti rivoluzionari. C’era fermento e dopo la seconda guerra mondiale, era ritornata un po’ di fiducia nell’umanità. Non ho vissuto quegli anni purtroppo, ma forse è andata meglio così per ora, perché non so se sarei ancora viva! Oggi quel fuoco soprattutto nella politica e nell’arte (che vanno sempre a braccetto e sono indice della salute dei paesi e dei popoli) è molto molto sopito. Una coltre di pigrizia, piattume e indolenza ha colpito il nostro sistema. Sento intorno un “impulso vitale” ai minimi storici.
Cosa c’è di lei in questa storia?
Questa storia ha avuto parecchie gestazioni. Per ora questa storia che ho scritto mi convince. Ho avuto bisogno di tempo per fidarmi del fatto che potessi scriverla io stessa. È stata una bella sfida. Ma ho chiuso un cerchio. Necessariamente il mio.
Nell’era di autotune e AI, dove scorre il legame tra le blues women del passato e quelle di oggi o cantautrici di oggi?
Non credo che ci sia un legame se non in certe tematiche che però oggi sono strumentalizzate dalla moda e non viscerali come quando si ha davvero l’urgenza di dire, di tradurre, di tradire di “sentire”. Il canto blues è qualcosa di eclatante, profondamente onesto. È come vedere una donna nuda in scena. È ancora di più. Una voce spoglia frustata come la pelle di una puledra. Non posso aggiungere altro.
Il titolo: “Dream a little dream”. Qual è il suo significato? Sembra poco blues…
Letteralmente è il sogno di un piccolo sogno. Mi piace rimandare al fatto che sia il sogno di un sogno, lo trovo meta teatrale come la mia scrittura per autorappresentarmi. “Dream a Little Dream” mi piace perché è un brano classico se è cantato da Doris Day, ma io l’ho sempre considerato nella versione dei Mamas and Papas, sgorgare dalla voce di Cass Elliot, che toglie tutta la retorica del sogno amoroso e vomita gioia “trasognata”: una riscrittura in chiave rock and blues. Proprio come ho cercato di fare io in questo lavoro “dream a Little dream” (of me).
Sarà al Teatro Biblioteca Quarticciolo, il 17 e 18 maggio, con un’altra figura femminile potente e fuori dagli schemi: Kassandra. Una figura mitologica che qui assume un’identità fluida, senza patria e senza certezze. Quanto è importante portare questo testo
in scena in un momento come questo? Qual è il messaggio più forte che questo spettacolo vuole trasmettere?
Kassandra è ultima tra gli ultimi. Creduta pazza e in costante confronto con la sua polis, in questa riscrittura di Blanco, è una donna in transito in tutti i sensi: immigrata e clandestina è anche in transizione di genere. “I m not a Man I’m not a woman, is complicated I’m Kassandra!” È una frase che esprime ancora la mancanza di accettazione della transessualità, ma lei paradossalmente è stata accettata dalla sua famiglia, storicamente piuttosto conservatrice. In questa versione Priamo e Ecuba si sono leggermente evoluti.
Non amo molto l’idea che ci debbano essere per forza dei messaggi. Piuttosto delle suggestioni, degli innamoramenti viscerali, dei pensieri. Kassandra si confronta e si dona costantemente al pubblico… che gran cosa è poter essere generose, è una grande opportunità per un’attrice interpretare una profetessa.
Qual è stata la sfida più grande nel portare in scena questo testo e qual è stata la parte più stimolante?
Con la regista MariaVittoria Bellingeri abbiamo subito voluto creare un mondo. Abbiamo attinto da varie fonti politiche e anche estetiche. Ci abbiamo messo tanto di noi. Non è stato facile e abbiamo avuto bisogno di tempo. Essere credibile e dare l’anima al tempo stesso è molto stimolante. Lavorare sul personaggio, su come parla e come si muove e sulla musica che suono e canto dal vivo… è molto emozionante. Tutto il lavoro ha una sua coerenza e organicità dunque non c’è una parte che non scorra, a mio avviso. È un testo coraggioso che parla di donne, minoranze politiche e di visione del futuro, ma soprattutto di Speranza. La speranza è una cosa che risulta spesso retorica quando il mondo va a rotoli, ma dall’altro lato, la Speranza è la cosa più importante; nei momenti più bui di sofferenza la speranza che “domani possa andare meglio” è l’unico balsamo per reagire alle difficoltà.
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