Il fast fashion non è più sostenibile e non solo a livello ambientale

Partiamo da un presupposto: il fast fashion non è altro che modello industriale che punta alla produzione rapida ed economica di abbigliamento, seguendo le ultime tendenze. Sebbene questo modello renda la moda accessibile a molti, dietro si nascondono gravi implicazioni ambientali e sociali. L’impatto reale del fast fashion Esiste un modo per capire e quantificare […] The post Il fast fashion non è più sostenibile e non solo a livello ambientale appeared first on The Wom.

Feb 28, 2025 - 14:17
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Il fast fashion non è più sostenibile e non solo a livello ambientale
Sono sempre più numerose le inchieste che denunciano noti marchi di moda di utilizzare sostanze tossiche nei vestiti (anche dei neonati e dei bambini) e gli studi in cui si quantifica l’impatto del fast fashion in termini di emissioni ambientali. Si moltiplicano anche le immagini dal Ghana o dal Cile e delle loro discariche di vestiti, ed è tristemente noto, ormai, il sistema di sfruttamento che si nasconde dietro la produzione degli abiti. Nonostante questa ampia consapevolezza, però, i fatturati dei colossi del fast fashion continuano a crescere. Oggi analizzeremo più a fondo cosa si cela dietro questa macchina apparentemente perfetta, ma tutt’altro che sostenibile

Partiamo da un presupposto: il fast fashion non è altro che modello industriale che punta alla produzione rapida ed economica di abbigliamento, seguendo le ultime tendenze. Sebbene questo modello renda la moda accessibile a molti, dietro si nascondono gravi implicazioni ambientali e sociali.

L’impatto reale del fast fashion

Esiste un modo per capire e quantificare l’impatto di un prodotto o servizio e si chiama Life Cycle Assessment. Questo tipo di valutazione prende in considerazione ogni singolo impatto che viene generato dalla produzione allo smaltimento di qualcosa. Quanto impatta procurarsi del cotone? E lavorarlo? E trasformarlo in un indumento? Ecco qualche numero: per realizzare una singola maglietta in cotone possono essere necessari oltre 2.700 litri d’acqua. La tintura e il trattamento dei tessuti, poi, coinvolgono l’impiego di sostanze chimiche, coloranti e metalli pesanti che fanno del male sia a chi li usa per scopi produttivi (lavoratrici e bambini) sia a noi.

Tutto questo senza accennare al fatto che per mantenere bassi i costi, oltre a materiali scadenti,

molte aziende si affidano a fabbriche in paesi in via di sviluppo, dove i lavoratori spesso affrontano salari minimi e orari estenuanti in strutture non idonee al lavoro

Basti pensare al disastro del Rana Plaza: il 24 aprile 2013, un edificio di otto piani situato a Savar, nei pressi di Dacca, Bangladesh, è crollato, causando la morte di oltre 1.100 persone e più di 2.500 feriti. L’edificio ospitava diverse fabbriche tessili che producevano capi per grandi marchi internazionali di moda. Questa enorme tragedia fece emergere il lato oscuro della moda e il sistema di oppressione su cui poggia.

Sumi Akhter, sopravvissuta al disastro di Rana Plaza
Sumi Akhter, sopravvissuta al disastro di Rana Plaza

La cultura dell’usa e getta

Viviamo in una società dominata dalla cultura dell’usa e getta, un atteggiamento che adottiamo nei confronti degli abiti che indossiamo.

Marchi di fast fashion e ultra fast fashion producono tra 35.000 e 100.000 capi al giorno, alimentando un ciclo continuo di acquisto e scarto

Spesso i capi vengono indossati solo tre volte prima di essere buttati, complice il marketing che spinge i consumatori a inseguire fino a 24 collezioni l’anno. Senza contare che i tessuti sintetici, ampiamente utilizzati in questa industria, rilasciano microplastiche durante il lavaggio. Queste particelle finiscono negli oceani, entrando nella catena alimentare e minacciando la fauna marina.

Una protesta di alcuni attivisti ambientali a Varsavia all'interno delle vetrine di una nota catena
Una protesta di alcuni attivisti ambientali a Varsavia all’interno delle vetrine di una nota catena di fast fashion

Lo smaltimento degli abiti e le alternative al fast fashion

Ovviamente le rimanenze di magazzino sono molte, così come sono molti i resi gratuiti. A questo proposito occorre fare una precisazione: nel 99% dei casi, un reso gratuito equivale alla discarica e non alla rimessa in commercio, perchè questo significherebbe dover sostenere una spesa superiore.

In conclusione, sebbene il fast fashion offra abbigliamento a prezzi accessibili, non è un modello sostenibile. Tuttavia, esistono alternative che ci permettono di vestirci senza alimentare questa industria dannosa:

  • Acquistare meno e scegliere marchi etici (preferibilmente italiani o con certificazioni di sostenibilità);
  • Comprare abiti di seconda mano tramite piattaforme online, dove si trovano spesso capi nuovi con cartellino;
  • Utilizzare i propri vestiti il più a lungo possibile, riducendo sprechi e impatto ambientale.

Il cambiamento parte dalle nostre scelte: ogni acquisto è una scelta nella direzione del mondo che vogliamo costruire.

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