Cinquant’anni dall’aggressione di Ramelli
Il corsivo di Battista Falconi

Il corsivo di Battista Falconi
Ricorrono i cinquant’anni dall’aggressione che portò, dopo alcuni giorni di straziante agonia, alla morte di Sergio Ramelli. In fondo si tratta solo di una delle molte occasioni di riflessione sui cosiddetti anni di piombo, espressione azzeccatissima, che ne proponevano quasi una al giorno: i titoli sull’atto di violenza contro l’avversario politico o sull’attentato terroristico, spesso riconducibile a trame oscure, inanellavano a quei tempi una lugubre quotidianità. Chissà perché, poi, uno di quegli episodi si staglia in modo più vivido nella memoria, i cui filtri e meccanismi restano del tutto misteriosi. Forse nel caso di Ramelli colpiscono le modalità: picchiare sulla testa un ragazzo con una chiave inglese numero 36 lascia pochi margini alla preterintenzionalità che, pure, fu riconosciuta agli assassini come attenuante.
A sentirli parlare e ricordare il loro omicidio, quegli assassini, emerge un’inconsapevolezza allucinante che va persino oltre la “banalità del male” coniata da Hannah Arendt. Se il gerarca Eichmann rappresentava la spersonalizzazione delle rotelline che compongono gli ingranaggi del male, qui i protagonisti offrirono un surplus non richiesto di malvagità. Difficile davvero pensare alle sopravvivenze successive delle famiglie, colpite in questo modo e mai compensate da una memoria davvero condivisa, da un riconoscimento di colpa collettivo, da una richiesta di perdono non convenzionale. Anzi, fatte oggetto di vilipendio e dileggio quando non di minacce, in quanto corree geneticamente col nemico.
Quando si ripensa a quei tempi dell’“uccidere un fascista non è reato” è inevitabile concedere un pizzico di comprensione in più a chi oggi ancora li celebra con rituali di inammissibile fascisteria. Lo si dica senza alcuna simpatia per i saluti romani e i “presente”, che sono davvero dimostrazioni di scarsa intelligenza, nel senso razionale del termine. Ma il cuore e il cervello comandano anche ad altri istinti viscerali, che il ricordo di Sergio Ramelli inevitabilmente accende.
Se ci si passa il doppio carpiato, accade un po’ come per i sedicenti influencer che impazzano sui social media, sostenendo che Papa Francesco non è morto e postando demenziali video nei quali si aggirano, peraltro perdendosi, nei corridoi del Policlinico Gemelli: “Vedete? Non c’è!”. Il feedback che sollevano è in gran parte composto da persone di medio buonsenso che li perculano, ma poiché sui social vale il “comunque se ne parli”, anche le prese per i fondelli fanno interazione. La motivazione di fondo da cui questi poveretti partono, in apparenza, non è però del tutto delirante: la malattia del Santo Padre è soggetta infatti a una riservatezza che in passato si conferiva a qualunque stato di salute, ma che oggi, essendo il coming out divenuto quasi un obbligo, stride come una scelta sospetta.
È andata così anche con il Covid: complottisti e no vax, sostenitori di nefandezze e assurdità pericolosissime per la salute pubblica, sono stati in qualche misura spinti anche da una comunicazione che non ha lasciato spazio ai minimi spiragli di perplessità. Si pensi solo allo spaccio come “vaccino” tout court di presidi provvisori, incompleti, non sufficientemente testati e portatori di pesanti rischi collaterali: è stato senz’altro meglio assumerli, in termini sanitari, ma sarebbe stato onesto ammetterne l’imperfezione. Anche per rispetto alle tantissime vittime che si presume possano essere attribuite alle avversità conseguenti.