Cari pacifisti, le spese militari sono una cosa seria
Che cosa si dice e che cosa non si dice su spese militari e ReArm Europe. L'analisi di Gianfranco Polillo

Che cosa si dice e che cosa non si dice su spese militari e ReArm Europe. L’analisi di Gianfranco Polillo
È una grande fuga quella della politica italiana. Lasciamo da parte il presidente del Consiglio alle prese con il grande rebus di un risiko geopolitico dagli esiti imprevedibili. Giorgia Meloni fa quello che può, ma sono troppe le variabili che sfuggono a qualsiasi controllo e rendono assolutamente incerto il possibile futuro. Sarà ancora dominato dalla presenza americana? L’amicizia senza limiti tra la Cina e la Russia illuminerà il firmamento degli antagonismi o il bisturi di Trump avrà prodotto quella cesura che oggi sembra solo un sogno? Troppo presto per fare ipotesi. Solo domani si vedrà.
Ciò che colpisce nella situazione italiana è l’esistenza di un movimento continuo e senza senso. Ci si agita. Si litiga. Ci si scontra su un antico che non sembra passare mai, sebbene la distanza sia ormai secolare. Mentre il presente non interessa. Non è preso sul serio. Non incuriosisce nemmeno. Altrimenti qualcosa si sarebbe trovato. Non essendo poi così difficile uscire da certi luoghi comuni, che invece si trasformano in un loop infinito. Si pensi solo alle energie spese per il Manifesto di Ventotene: agitato come un bandierone nelle manifestazioni di piazza, salvo poi scoprire che in quel testo si inneggia alla vecchia e cara “dittatura del proletariato”. Solo che per ottenere questo risultato non era necessario far ricorso all’Intelligenza Artificiale. Bastava scorrere quell’antico e nobile testo.
Il dibattito sulla nuova difesa europea ha, quindi, messo in luce tutti i difetti della situazione italiana. Grandi sfoggi di stucchevole demagogia. Sacri principi declinati per difendere limacciose posizioni di bottega. La classe politica italiana che si isola in un Europa che, pur tra le contraddizioni del presente, cerca un colpo di reni. Se ce ne fosse bisogno, basti guardare a Berlino. Dove una classe politica fino a ieri infognata in un ottuso mercantilismo, di fronte a sfide esiziali, si libera di colpo del complesso, meglio della colpa, del debito. Cambia la Grundnorm per avere nuove munizioni per la sua difesa ed il suo sviluppo. Ed ipotizza un piano d’intervento superiore a 1000 miliardi di euro per modernizzare le proprie strutture e creare una forza militare in grado di dissuadere chiunque.
In Italia, invece è puro teatrino. Compreso il presunto vilipendio della “Costituzione più bella del mondo”: denuncia che non manca mai. Quasi a dimostrare che l’attuale presidente del Consiglio è solo un’usurpatrice. Avere avuto l’investitura popolare non le è stato sufficiente. Perché, in Italia, il titolo, la legittimazione a governare è soprattutto un connotato culturale, le cui regole non scritte, ma inderogabili, sono il lascito dell’ancien regime. Che non tramonta mai, ma si rinnova continuamente nell’immobilità di quelle forze politiche pronte a cambiare nome, ma senza mai abbandonare gli elementi fondanti della loro tradizione.
Eppure non ci vorrebbe molto per impostare un discorso razionale. Non bisogna essere scienziati, né uomini della sempre più rimpianta Prima Repubblica. Quando le sceneggiate erano il contentino dato ai propri militanti. Poi ci si riuniva in luoghi appartati e lì si decideva. I puristi bollarono questo metodo di governo con il termine dispregiativo del “consociativismo”. Dimenticando di dire ch’esso aveva consentito alle forze democratiche e liberali di convivere con il più forte partito comunista di tutto l’Occidente, fino a spingerlo sul terreno della democrazia vera: non quella teorizzata nel Manifesto di Ventotene. Al punto che uno dei suoi principali esponenti, come Giorgio Napolitano, diverrà per ben due volte presidente della Repubblica italiana. Potenza di un amor patrio capace di abbattere le paratie del fanatismo ideologico e del settarismo.
Abbiamo sentito, invece, leader della maggioranza e dell’opposizione invocare la pace. Come se questa fosse una loro esclusiva prerogativa. Affermare che il debito si deve fare per la sanità e la scuola, non per le armi. Elementare Watson. Si trattasse di una situazione normale non avremmo dubbi. Ma quella che sta di fronte, non solo in Ucraina o in Palestina (legate in qualche modo da un doppio filo, che passa per il revanscismo) è tale? O non è un grande subbuglio dagli esiti imprevedibili? Una fase che sconvolge vecchie abitudini. Manda al macero insostenibili pigrizie. Obbliga ad interrogarsi soprattutto a riscoprire la forza del principio di precauzione che, pur nell’incertezza, obbliga a fare. Per scongiurare futuri e sempre possibili disastri.
Nulla di tutto questo. Ciò che più colpisce è la postura stessa di coloro che denunciano l’enormità della cifra che Ursula von del Leyen ha proposto di investire: 800 miliardi di euro. Angelo Bonelli, intervenendo a Porta a Porta, lo ha paragonato all’analoga richiesta di Mario Draghi nel suo “Rapporto sul futuro della competitività europea”, dimenticando tuttavia che si tratta di cose ben diverse. Draghi ha cifrato lo sforzo necessario per reggere alle gradi sfide del futuro in 800 miliardi l’anno. La richiesta della Commissione europea è stata invece di 800 miliardi in quattro anni. Per cui, se l’aritmetica più che la matematica non è un’opinione, si tratterebbe di 200 miliardi l’anno, da ripartire tra i 27 Stati che compongono la Ue. Uno sforzo sovrumano, destinato a sfiancare un cavallo? Lo scorso anno il Pil europeo, secondo Eurostat, è stato pari a 17.935 miliardi di euro. Lo sforzo richiesto sarebbe pertanto pari all’1,11% del Pil, per un periodo circoscritto. Destinato, tra l’altro a non incidere sul deficit, ma, eventualmente, solo sul debito.
Nel 2023 il costo della Nato, come risulta dai bilanci pubblicati, è stato pari a 1.304,9 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti vi anno contribuito per il 67,1%, con una spesa pari a 875 miliardi di dollari. In un solo anno, quindi, hanno speso quanto l’Ue si propone di investire nel piano di 4 anni. Il che la dice lunga sull’impegno per garantire la sicurezza di questa parte del mondo libero. Il contributo Ue è stato pari al 22,6%, per un totale di 295 miliardi. Gli altri Paesi europei (Albania, Montenegro, Nord Macedonia e Norvegia) che non fanno parte dell’Ue hanno corrisposto un importo pari allo 0,7%. Canada, Turchia e Gran Bretagna, infine, hanno fornito da soli un supporto all’incirca pari alla metà (124.5 miliardi di dollari) dell’intero contributo europeo. In particolare il contributo italiano è stato pari a 32,7 miliardi di dollari: il 2,5% del costo complessivo dell’organizzazione ed il 3,7% del contributo americano.
Questi numeri dovrebbero far riflettere. Donald Trump potrà essere odioso ed antipatico. Ma la politica non è né un concorso di bellezza, né una gara di buone maniere. È soprattutto difesa dei propri interessi nazionali, pur nel quadro di un sistema di alleanze le quali, tuttavia, non possono prevaricare. La sproporzione nella ripartizione dei costi di un sistema di difesa posto soprattutto a garanzia degli europei è evidente. Fin quando la “guerra fredda” polarizzava il mondo, gli Stati Uniti non avevano esitato a sostenere i costi prevalenti della Nato. Nella presunzione che quello era il territorio più avanzato dell’Occidente. E quindi una difesa implicita del proprio territorio. Ma da quando il pendolo della geopolitica ha virato in un’altra direzione (l’Indo Pacifico) gli equilibri non sono più gli stessi.
I nostri pacifisti ritengono improponibile investire 200 miliardi l’anno, per i prossimi 4 anni, per la difesa europea. Meglio “produrre burro invece di cannoni”. Ma allora perché gli Stati Uniti dovrebbero essere da meno? Perché dovrebbero continuare ad investirne 800 di miliardi e sostenere il 67,1% dei costi di un’Alleanza, come la Nato, posta soprattutto a difesa dell’altra parte dell’Atlantico? Quindi: attenti a non tirare troppo la corda. Lo stesso Donald Trump potrebbe seguire quei pifferai che ipotizzano un’uscita unilaterale da un sistema che, nel 2023, ha pesato per circa il 40 per cento sull’intero deficit federale. Ed allora altro che 200 miliardi! Sempre che non si voglia di passare, armi e bagagli, come pure si vede in controluce, sotto le grinfie di Vladimir Putin.