‘Adolescence’ ha molto in comune con le cronache giudiziarie sui minori: alle loro parole va ridata centralità

Le parole fraintese o inascoltate dei bambini e gli inciampi di chi li deve valutare costituiscono a mio parere l’elemento portante della serie televisiva Adolescence, nella cui trama possiamo reperire spunti clinici utili a commentare fatti di cronaca, anche drammatici, che hanno come oggetto il vaglio della volontà del minore. L’intenso scambio tra la psicologa […] L'articolo ‘Adolescence’ ha molto in comune con le cronache giudiziarie sui minori: alle loro parole va ridata centralità proviene da Il Fatto Quotidiano.

Apr 29, 2025 - 16:55
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‘Adolescence’ ha molto in comune con le cronache giudiziarie sui minori: alle loro parole va ridata centralità

Le parole fraintese o inascoltate dei bambini e gli inciampi di chi li deve valutare costituiscono a mio parere l’elemento portante della serie televisiva Adolescence, nella cui trama possiamo reperire spunti clinici utili a commentare fatti di cronaca, anche drammatici, che hanno come oggetto il vaglio della volontà del minore.

L’intenso scambio tra la psicologa Ariston e Jamie nel terzo episodio mi dà il destro per ragionare sulla necessità di dare una rinnovata centralità alle parole dei bambini quando sono sottoposti ad analisi di tipo psicologico-valutativo, parole spesso messe in ombra da costrutti teorici che rischiano di lasciare in secondo piano volontà spesso espresse in maniera inequivocabile. La parte nella quale la psicologa cerca di indagare i motivi che hanno spinto il ragazzino ad uccidere una coetanea brilla per il crescendo di errori che la suddetta compie. Partendo da idee preconcette (il voler validare ad ogni costo che il gesto di Jamie è una diretta conseguenza di un ambiente patriarcale e machista) si tramuta il gioco delle libere associazioni e della valutazione imparziale in una sorta di interrogatorio viziato da un’atmosfera confessionale, tradendo la libertà laica sulla quale si basa il rapporto psicoterapeuta-paziente.

Tutta la prima parte del dialogo scivola in un tentativo di confermare ciò che lei ha già deciso: Jamie non è altro che un piccolo maschio figlio di una società patriarcale, colpevole non tanto perché libero di decidere di dare la morte, ma perché indiscutibilmente ancorato ad un retroterra culturale abietto e padronale. Dunque non un soggetto con una propria personalità e dotato di un libero arbitrio, ma il frutto di una cultura irredimibile. La gragnuola di colpi si abbatte sul ragazzo al suono di frasi quali:
‘Cosa pensi di tuo padre e tuo nonno?’
‘Tuo padre è nervoso?’

E’ talmente cieca la volontà di convalidare la facile equazione padre nervoso = figlio aggressivo che si scontra contro la giusta obiezione del soggetto che si sente scavalcato e ignorato: ‘Lo stai mettendo sotto esame? Ruota tutto attorno a lui?’. Il gesto del ragazzo che si alza e la sovrasta anche fisicamente, indice di una caduta irrimediabile di autorevolezza, non basta alla psicologa per rettificare la sua azione e orientarla ad una valutazione che parta dalle parole di Jamie. Anzi, rincara la dose:
‘Tuo padre come tratta tua madre?’
‘Ricominci ad attaccare mio padre?’
‘I suoi amici sono uomini. Come tuo padre hai amici solo maschi’.

Jamie ha sì ucciso brutalmente l’amica, ma l’ha fatto spinto da un odio personale, figlio dei suoi complessi inelaborati, mosso dal desiderio di eliminare fisicamente chi lo aveva definito un ‘incel’, termine che viene tradotto come celibe involontario. Insomma uno sfigato che non attrae le ragazze.

È stato lui e solo lui ad ideare e mettere in atto il delitto. E come scrissi in questo post, è la volontà del soggetto che lo rende colpevole, ben prima di qualsiasi teoria preconcetta che estenda ad altro, diluendola, la colpa del suo efferato gesto. Solo alla fine del drammatico confronto Jamie rivela le sue nascoste fragilità: ‘Posso farti una domanda? Ti piaccio almeno un po’? È il suo grido ultimativo per ottenere dalla psicologa quell’accettazione forse mai avuta nel mondo dei coetanei. Psicologa che, freddamente, dunque sbagliando ancora una volta la posizione, gli dice seccamente di essere stata convocata solo per un parere professionale. Il suo ‘non ti piaccio nemmeno un po’?’ ci svela un ragazzino che si vive brutto e isolato, incapace di suscitare interesse alcuno, specie nel mondo femminile. Il suo pianto finale contiene un ‘non andartene ora che ti ho trovato’, bisognoso di essere contenuto e al contempo privo di qualsiasi senso di colpa per l’assassinio di cui si è reso colpevole.

Volontà non ascoltate, dicevamo.

A Roma una bambina, pur di non essere allontanata dalla madre, si sarebbe legata alla sedia per evitare il collocamento in una casa famiglia, mobilitando un intero palazzo che si è opposto al suo prelievo bloccando momentaneamente il decreto del Tribunale dei Minori. Le cronache mediatiche riportano che decisiva sarebbe stata una consulenza secondo la quale la madre avrebbe trasmesso alla minore un “rifiuto genitoriale”, esponendola a un “trauma dissociativo”. Ancora.

La Cassazione ha bocciato un procedimento pronunciato in Emilia Romagna nel quale l’affidamento di due minori e la regolamentazione delle visite paterne è stato determinato da una consulenza che avrebbe bollato la madre come ‘ostativa-alienante’. La Corte di Cassazione, motivando questa bocciatura, esprime “censura dell’omesso ascolto” dei minori e stigmatizza la valutazione della “non idoneità genitoriale ricostruendo il profilo psicologico dalla consulenza tecnica d’ufficio”, concludendo che: “Non è possibile far discendere dalla diagnosi di una patologia, anche se scientificamente indiscussa e a maggior ragione se dubbia, una presunzione di colpevolezza o inadeguatezza della funzione genitoriale”.

Nel processo – scrive la Cassazione a gennaio 2025 – si giudicano i fatti e i comportamenti. La diagnosi può aiutare a comprendere, ma non può da sola giustificare un giudizio di non idoneità parentale a carico di un genitore”. Questo pronunciamento ribadisce quello che un clinico sa bene, vale a dire che le parole di un bambino devono avere un valore primario rispetto alle teorie che cercano di interpretarle. L’indagine psicologica non può togliere la centralità alla parola e al vissuto che essa comporta. Questo significa che ‘Voglio stare con quel genitore, e non con l’altro’ molto spesso significa semplicemente quello che il bambino dice. Per dirla con Freud, un sigaro a volte è solo un sigaro…

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