Sul senso dell’essere custodi

Benemerita appare, in tempi di scontri tra partiti sull’elezione dei membri della Consulta, la traduzione di alcuni saggi di Dieter Grimm, costituzionalista tra i più importanti dell’odierna Germania. Tale impresa […]

Feb 20, 2025 - 14:54
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Sul senso dell’essere custodi

Benemerita appare, in tempi di scontri tra partiti sull’elezione dei membri della Consulta, la traduzione di alcuni saggi di Dieter Grimm, costituzionalista tra i più importanti dell’odierna Germania. Tale impresa editoriale[1] senza voler toccare le corde della retorica, ci appare già a un primo sguardo come un agile libretto cui tuttavia aggrapparsi, se possibile, in un particolare momento d’incertezza – nella relazione tra i poteri dello Stato – quale è quello che viviamo, un momento in cui la luce della scienza costituzionalistica dovrebbe (lungi dal serrarsi in meri esercizi esegetici traducibili in ‘note a sentenza’) ancor di più rischiarare quelle zone d’ombra che, storicamente, invadono lo spazio del ‘giudizio sulle leggi’.

Per questo motivo, quindi, e cioè per quest’opera – o per questo tentativo – di ‘rischiaramento’, va ringraziato l’autore or ora citato – esponente di una lunga tradizione dottrinale – ma soprattutto vanno ringraziati i curatori del volume che raccoglie i saggi di Grimm, studiosi esperti della materia, che qui è d’obbligo richiamare: innanzitutto Giovanni Bisogni (ordinario di Teoria del diritto e dell’argomentazione presso l’Università di Salerno) e poi anche Matteo Bozzon, giovane ricercatore traduttore dei lavori di Grimm.

Ma veniamo in medias res. La questione che investe la riflessione del costituzionalista tedesco è un crocevia della materia giuspubblicistica che può dirsi dibattuta da sempre: essa riguarda la giuridicità (o meno) del lavoro di ogni Corte suprema (o costituzionale); in altri termini, questo lavoro può dirsi essere solo giuridico o solo politico o politico e giuridico insieme? Domanda che non viene per caso, soprattutto oggi, in tempi come detto di scontri tra poteri dello stato, siano questi ultimi di garanzia o di governo.

Ciò detto, tornando all’interrogativo appena avanzato, vediamo come esso, lungi dall’essere specchio di polemiche recenti, in realtà riflette uno scontro che radica direttamente al principio dello scorso secolo. In tal senso, la ‘battaglia culturale’, lo ‘scontro’ cui si allude è quello celeberrimo che vide contrapposti tra gli anni Venti e Trenta del ‘900 da una parte Hans Kelsen, dall’altra Carl Schmitt. Ebbene Grimm cavalca proprio quel Kulturkampf facendo ‘girare’ la sua argomentazione intorno esattamente alla polemica tra Schmitt e Kelsen. Ci sembra una scelta corretta. Nessuno, infatti, come il giurista di Praga e quello di Plettenberg ha saputo incarnare, a suo modo, una determina visione della giustizia costituzionale, tendente ad escludere (o negare) l’altra.

In tal senso, allora, se Kelsen, come si osserva, vede(va) proprio la giustizia costituzionale come un ‘problema’ tutto giuridico, inserendola all’interno della sua concezione dell’ordinamento come Stufenbau, come ordinamento-a-gradi, dunque assegnando a quel tipo di giustizia un compito prettamente tecnico, di pulizia normativa, di equilibrio (legale) nella catena delle fonti, per Schmitt quel problema (che Kelsen ‘liquida’ semplicemente rifacendosi al suo ideale castello normativo) indotto dalla presenza di un consesso di giudici capace di sindacare le leggi – dunque la volontà popolare – rappresenta quasi un cortocircuito per il (suo) modello di democrazia, sicuramente non una risorsa per l’ordine democratico così come pensa Kelsen.

Insomma, il punto di scontro tra i due massimi giuristi di lingua tedesca del Novecento gira intorno alla reale (o presunta) natura di custode di ogni corte costituzionale: per Kelsen qualsiasi corte (suprema o costituzionale) di fatto incarna un fondamentale presidio di garanzia, dunque, a cascata, ogni corte è presidio dell’ordinamento visto, appunto, nella sua forma piramidale, verticistica, come catena-di-fonti che devono, in qualche modo, (auto)regolarsi. Per Schmitt, invece, quel tipo di garanzia non può essere offerta da un giudice, sia esso monocratico o collegiale, ma reale custode dell’ordinamento non può che essere un organo tutto politico, ovvero di rappresentanza, e cioè il parlamento in una prima fase, costellata dall’ascesa della borghesia nell’Ottocento, sicuramente il presidente del Reich nell’epoca weimeriana. Questo perché la natura di custode non può – per Schmitt – che essere integralmente legata alla decisione politica (che in Schmitt assume come ben si sa tutta una specificità) e non (come per le corti costituzionali) riflesso di scelte politiche e tecnico-giuridiche insieme.

Chi ha ragione? Ebbene come la seconda parte del volume ci mostra, se l’ascesa dello stato costituzionale di diritto come modello egemone delle democrazie nel mondo ha posto le argomentazioni di Kelsen quasi su un piedistallo, nondimeno la vis polemica generata dalle critiche di Schmitt non può tout court essere accantonata, incarnando al contrario una chiave utile per capire diverse obiezioni (più o meno forti) che oggi vengono mosse al tipo della giustizia costituzionale.

In altre parole, facendo Grimm riferimento al contesto anglosassone – in particolare parlando degli Stati Uniti – egli fa emergere quelle accuse che, proprio in quel particolare contesto da tempo sono rivolte alla Corte suprema. Tale viene tacciata di essere un organo (im)politico ma contro maggioritario, espressione di una élite tecnocratica capace con le sue decisioni di capovolgerne altre (espresse a maggioranza) del parlamento o del governo, questi sì naturali sedi della volontà popolare. È questo forse un cortocircuito da cui è (im)possibile fuoriuscire? Sono, insomma, accuse queste che Grimm sente di condividere?

Chiaramente la risposta è negativa, sia per la formazione culturale dell’autore, sia anche per come egli considera al tempo attuale il ruolo del giudice delle leggi. Attenzione però: tali critiche rivolte al modello della giustizia costituzionale, di essere un organo contro maggioritario, quindi anti democratico, come ci pare, Grimm si guarda bene dal considerarle accuse pretestuose. Farebbe torto alla sua capacità di analisi. In altri termini egli riconosce che l’oggetto e la funzione del lavoro di ogni corte suprema o costituzionale non può che essere (anche e soprattutto) di natura politica; cionondimeno a quell’oggetto e a quella funzione deve accompagnarsi un metodo (argomentativo) che rifugge dai particolarismi faziosi della Politica.

È nel metodo – nella sua preservazione – dunque che ogni giudice delle leggi ritrova se stesso, organo di garanzia e non di parte. Da qui, crediamo, la lezione di Grimm sta, forse, e nella chiarezza e nella semplicità del suo messaggio: non avere in sostanza paura delle parole, dell’aggettivo politica o politico se riferito alle scelte che compie una Corte costituzionale. Tali scelte sono naturalmente (anche) politiche, e non potrebbe essere altrimenti. Ma non è politica – intesa questa volta nel suo senso classico, di lotta di fazione tra gruppi sociali di interesse – la modalità traverso cui si giunge a quelle scelte. Una lezione semplice che purtroppo a volte pare essere dimenticata.


[1] Raccolta nel volume Diritto o politica? ed edita dall’IISF press, nella collana FILOSOFIA POLITICA DIRITTO diretta da Carlo Galli, Geminello Preterossi e Davide Tarizzo.