Salotto di Olivia

Il Salotto Letterario di Olivia Balzar al Lettere Caffé di Trastevere è il fulcro della vita poetica romana underground, e porta con sé una rivoluzione necessaria non solo nel modo […]

Apr 6, 2025 - 18:07
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Salotto di Olivia

Il Salotto Letterario di Olivia Balzar al Lettere Caffé di Trastevere è il fulcro della vita poetica romana underground, e porta con sé una rivoluzione necessaria non solo nel modo di concepire presentazioni e reading, ma anche e soprattutto nel modo di concepire i rapporti umani. È un luogo di gioia, bellezza, condivisione senza giudizio, in cui poeti e prosatori s’incontrano bevendo vino e parlando di letteratura senza alcuna supponenza, ma con lo sguardo ammirato di chi voglia prendere parte a un rito, il teatro magico di Hermann Hesse, senza spocchia o egoiche illusioni. È luogo di confronto e scontro, dove i libri trovano casa, insieme alla musica del cantautore e pianista Nico Maraja, e i piani sono allineati, le gerarchie abolite. È un angolo poetico nel cuore di Roma, che prende spunto dai maestri della scuola romana da un lato, e della beat generation dall’altro, dove le letture hanno il respiro di lunghe notti performative. Almeno un giovedì al mese ci vado e mi metto in gioco leggendo inediti; ho presentato da Olivia Balzar diversi miei libri. Voglio qui spendere due parole sui libri – almeno l’ultimo libro pubblicato – degli assidui frequentatori del Salotto, tra cui ci sono anche i redattori del blog letterario Suite italiana, da me diretto. 

Là dove finisce il mondo di Olivia Balzar (Ensemble) è un prosimetro – dove però le prose sono proprio racconti – sperimentale. Siamo in un periodo di grandi cambiamenti, il mondo non è più quello di prima e questo sconvolgimento si riflette dal personale all’universale. L’autrice identifica l’apocalisse con la carta numero 13 dei tarocchi, ovvero la Morte che indica la fine in funzione di un nuovo inizio. È una fine violenta, improvvisa, una lacerazione tra la realtà e la proiezione di essa. La fine del mondo, come è concepita tra le pagine di questo libro, può essere ricollegata all’Archetipo di Persefone, trasformazione e crescita attraverso il contatto con le regioni più oscure del proprio inconscio. In fase di ricostruzione del proprio mondo l’immaginazione e lo stupore giocano un ruolo fondamentale, permettendo di tornare indietro, al periodo dell’infanzia per provare a ritrovare quel tipo di sguardo sul reale.

Racconta indifferenza di Iolanda La Carrubba (Ensemble) è avanguardia, performazione della parola, un gioco sacro tecnomagico. La poesia di Iolanda La Carrubba è un canto, ricorda certi stornelli del sud che nietzscheianamente giocano con qualcosa di scaro. Vi è egemonia del significante sul significato, ritmo sincopato, dove la parola – una parola – acquista differenti significati. L’ironia del gioco di parole può far pensare a un Trilussa cyberpunk. Iolanda La Carrubba è una delle poetesse più originali nel panorama nazionale, il suo non prendersi troppo sul serio è in realtà indice di grande serietà, la capacità nell’uso del significante a dispetto di ogni pretesa egemonica del significato ci avvicina a un mondo accessibile solo mediante l’immaginazione, con una lingua che ricorda quella di Lewis Carroll.

Un quoziente di gioia di Giorgio Galli (Fve) è l’epistolario immaginario tra Leoš Janáček e il suo ultimo grande amore, Kamila Stösslová. Lo si può associare all’immagine di una grande fiamma poco prima del suo spegnimento, giacché in esso non solo c’è una passione che sprofonda poi nella morte, ma anche il ricordo di un mondo, quello tardo-ottocentesco, che poco dopo si sarebbe inabissato per non ricomparire mai più. Così, il romanzo delle lettere dei due amanti è tenuto insieme da una sorta di secondo romanzo, quello scritto da Rudolf Firkušný, grande pianista e allievo del compositore, che poco prima di morire nel 1994 rievoca la sua adolescenza in una Brno spazzata via poi dalla guerra e dai regimi e racconta il suo rapporto con Janáček e gli anni in cui l’epistolario prende vita, fra il 1926 e il 1928. Galli non ha scritto un romanzo storico: i protagonisti sono realmente esistiti e le loro lettere sono pubblicate in lingua inglese, ma non le ha consultate e ha preferito offrire una ricostruzione poetica delle vicende anziché aderire alla realtà dei fatti. Galli è interessato a indagare il conflitto tra l’essere umano e il suo tempo e Janáček, troppo moderno in epoca romantica e troppo romantico in tempi di modernismo, nato a metà Ottocento, ma attivo come compositore nei primi vent’anni del Novecento, è una figura in cui vede condensato tutto il dramma di non chi non appartiene all’epoca in cui deve vivere.

Diario dell’approdo di Fernando Della Posta (Arcipelago Itaca) è una silloge sulla navigazione interiore, ma forse più un poema, diviso in nove sezioni: Mare del freddo, Mar delle piogge, Mar delle isole, Oceano delle tempeste, Mare crisium, Mare della fecondità, Mare spumans, Mar delle onde, Mar delle nuvole, Mare della tranquillità. In ciascuna sembra si cerchi un approdo che forse arriverà solo alla fine, nella descrizione paesaggistica che, come sottolinea Davide Toffoli in prefazione, sostituisce all’ego-centrismo l’eco-centrismo. Sono i luoghi della letteratura qui a prendere corpo, i luoghi di Omero, Melville, Montale, Pavese, Kavafis, e molti altri. Gisella Blanco durante la prima presentazione del libro lancia questa suggestione: “Appare la figura del poeta che muore ogni giorno. Questo poeta è un fanciullo post-pascoliano”. Cos’è l’approdo? Esiste o è irraggiungibile? È un impossibile che sempre si rigenera? Forse l’approdo esiste nell’illusione. Ciascuno decide dove vuole arrivare. Ma oggi manca talvolta l’impegno radicale, come se ci si cullasse sugli allori dei nostri avi, proprio perché le possibilità sembrano essere date a tutti, e Fernando Della Posta lamenta questa dispersione dell’arte nel qualunquismo.

La materia non esiste di Marco Colletti (La Vita Felice), è un libro dall’andamento poematico, diviso in 3 sezioni: Mens, Cor, Sensus, con una meravigliosa postfazione ungarettiana dell’autore. Emerge qui prepotente il pensiero poetante e la poesia pensante, forte l’eco rosselliana, specialmente in alcune poesie in cui è citata, come anche Ungaretti e Montale; quest’ultimo ripreso e ribaltato, non in una confutazione ma in un atto d’amore. Perché la materia non esiste? È un inganno, come nelle filosofie orientali, il velo di Maya? È la mente a dominare o a essere sconfitta? O è forse una sfida quella lanciata da Colletti nel voler rovesciare l’ipermaterialismo del tempo presente in una spiritualità diffusa in cui Dio è in ogni cosa, e il bene e il male sono uniti. Orientale, pagano e cattolico – il cattolicesimo è intriso di paganesimo – Colletti ci porta sul bordo, sul precipizio estremo da cui o si esce profondamente mutati o si esce morti. L’amore onnipresente è il tormento della perdita, peso e perdita di rosselliana memoria. I corpi sono avvolti da una luce piena di grazia e malizia, e qui ritrovo Pasolini, dove lo strazio di scrivere è la verità dell’adulto nel suo ritornare all’infanzia mediante la rammemorazione. Nel passaggio tra le ere geologiche, l’estinzione della specie, e l’eternità ritrovata con Rimbaud. Un amore interrotto prima di divorare e essere divorati. Una vita che è morte, dove Giobbe sopravvive e il poeta resta a osservare attonito il presente svanito nel paesaggio, ascoltando il caldo e la sua luce, su un balcone sospeso sopra il tempo. La follia è il nido incantabile di chi tenta di cantare l’indicibile e i rami d’oro della mente volano via. Una gabbia dorata di parole che hanno occhi, le tante morti che ci portiamo dentro, il mito, un crepuscolo celeste nell’intermittenza dell’ombra. Nella poesia come nella vita non c’è ragione, solo vette da scalare, la voce dello specchio tra Eco e Narciso. L’apertura all’oltremateria. Aspettiamo con ansia il nuovo poemetto di Colletti sui fenomeni celesti!

Zebù bambino di Davide Cortese (Terra d’ulivi) è un poemetto sull’infanzia del diavolo, dove vediamo il piccolo Zebù giocare con angeli neri, bruciando angeli bianchi. È un testo intenso, ironico, ma ha alle spalle studi di demonologia, oltre alla grande immaginazione borgesiana di Cortese, che si pone a cavallo tra avanguardia e tradizione. La sua voce si confronta con grandi maestri quali Arthur Rimbaud, Dino Campana, Gianni Rodati, Toti Scialoja. Nel poemetto troviamo un incanto di rime e assonanze, Cortese fa di tale immaginario un percosso alchemico, lasciando così libero spazio a un testo che cresce in quanto gioco dei simboli, e può essere letto anche dai ragazzi, senza perdere la potenza espressiva della vera poesia che, pur affrontando temi eterni, riesce a scendere nel contingente, e interseca figure mitologiche con la leggiadria di una danza per metà giocosa per metà macabra, in cui non mancano eco baudelaireiane.

Fosca Navarra, già affermatasi voce potentissima con la silloge d’esordio Perdutamente (Ensemble), e in procinto di pubblicare il suo primo romanzo con Minimum Fax, ha nel cassetto una nova silloge con cui dimostra come sia possibile ancora un romanticismo attento, esatto, mai melenso. La sua lingua, nonostante la giovane età, è radiosa, matura, sentimentalmente rapita, seppur mai sentimentale. Vi è un silenzio che è un canto, lo sguardo assorto all’alterità, in lei sento Pavese e D’Annunzio, ma anche Johon Keats, in quell’essere fanciulla e descriverlo come attraverso uno specchio carrolliano, dall’altra parte dell’età, dall’altra parte della vita, dove il giudizio dell’altro, la ferita diviene scudo e arma per fronteggiare l’ottusità. In Fosca riecheggia la vita purissima, il desiderio, un’anima estrema che sa districarsi con grazia e coraggio nei meandri della parola poetica, e sa ascoltare la meraviglia, sa farcene dono. Se dopo le parole il mondo inciampa, è alla vita in sé di deleuziana memoria che inneggia ciò che il testo non dice, vi è infatti un sottotesto, un non detto, che è la vita stessa dell’autrice inscindibile dalla sua opera. Fosca Navarra, seppur nell’eleganza di una lingua alta, è cantrice d’immediatezza salvifica, perciò mi fa pensare all’estasi di Santa Teresa, alla bellezza insaziabile, alla cura per ogni forma di vita, alla cura del creato.

Quasi più di niente di Marco Masciovecchio (Ensemble) è il segno che si esiste se c’è un altro disposto a osservarci, la domanda è chi osserva i cosiddetti ultimi? Marco dice: «Mi sento come loro un “ultimo” e in questo disfacimento di valori che ogni giorno è più evidente siamo dei cristi pronti a cadere e rialzarci». Masciovecchio ama fotografare i “resti”, la foto in copertina è sua e rappresenta quello che alla fin fine siamo: un poco più di niente. Nella silloge oltre sé stesso nella conoscenza di Cristo a 16 anni, ci sono vite dirette e indirette con cui ha percorso il suo cammino, alcune sono presenti, altre hanno preso l’altra riva, e ora sono nel mondo della verità. Marco è un testimone del proprio e dell’altrui passato e dell’attuale presente. Vi è nella sua poesia un riferimento a Trilussa, Pasolini, Dario Bellezza, Antonio Veneziani, Renzo Paris. E poi v’è l’ipocrisia e la paura che si fa fede e l’inizio: la prima poesia è dedicata a Pasolini, il poeta, che vedeva oltre l’uomo che smascherava il tuo tempo e prevedeva il nostro.