Primo Maggio: senza lavoro di qualità l’Europa rischia di scomparire
Sono oltre 100mila i giovani lavoratori e studenti che ogni anno lasciano l’Italia, in media. Sono ben oltre 6 milioni gli italiani che vivono all’estero, di cui la stragrande maggioranza lavoratori. Nel 2023, il 45,5% del totale iscritti all’Aire ha tra i 18 e i 34 anni e un 23,3% tra i 35 e i […]

Sono oltre 100mila i giovani lavoratori e studenti che ogni anno lasciano l’Italia, in media. Sono ben oltre 6 milioni gli italiani che vivono all’estero, di cui la stragrande maggioranza lavoratori. Nel 2023, il 45,5% del totale iscritti all’Aire ha tra i 18 e i 34 anni e un 23,3% tra i 35 e i 49 anni. Il lavoro è uno dei motori più potenti nell’orientare le scelte del cittadino, e come tale andrebbe trattato.
Senza lavoro di qualità l’Europa rischia di scomparire. Secondo un report di McKinsey, una prima ondata di paesi, tra cui Usa, Cina, Giappone, Corea del Sud ed Europa, vedrà la popolazione in working age – tra i 15 – 64 anni – restringersi a 340 milioni nel 2050. Questo vuol dire che il rapporto tra la popolazione che lavora e gli over 65 sarà di 2:1, nel 2050. Era di 7:1 nel 1997 ed è di 4:1 oggi.
Tutto questo non potrà essere sostenibile. Da dove partire dunque? Innanzitutto è necessario fare di tutto per rendere più competitivi i salari. Non c’è famiglia senza la possibilità di prendersi cura di sé stessi e di un’altra persona. L’attitudine a “rischiare” può essere favorita se c’è più budget per le giovani coppie. Non risolverebbe tutto, ma sarebbe intanto qualcosa.
Allo stesso tempo, i soldi non sono tutto. Occorrono orari di lavoro che consentano di sviluppare e dedicarsi a una vita privata, con un diritto alla disconnessione riconosciuto dalla legge per tutelare il tempo per sé stessi e le proprie comunità. Occorre formazione e possibilmente investire in ricerca. E occorre investire nella salute fisica e mentale, dunque in sanità.
È dimostrato che la tendenza a migrare è nel suo picco in quelle situazioni in cui si vive una via di mezzo tra povertà e benestare. Uno studio condotto dalla World Bank sull’Africa, pubblicato dall’Economist, dimostra che le persone vogliono emigrare di più man mano che i paesi si avvicinano a circa 5.000 $ di reddito a persona; raggiunge un picco quando sono a 10.000 $ e poi inizia di diminuire.
Nei paesi poveri, quindi, le persone non hanno le risorse per andarsene e non emigrano; nei meno poveri non ne hanno bisogno. Nelle vie di mezzo in cui si sopravvive ma si pensa di poter vivere molto meglio altrove, vi sono volontà e mezzi per emigrare. Questo non significa che si debba puntare a una ricchezza diffusa, anzi. Significa che però i parametri standard su welfare e mondo del lavoro, perlomeno tra Italia e resto d’Europa, devono equipararsi il più possibile se si vuole trasformare la fuga degli italiani in una circolazione diffusa dei talenti.
Da qui l’ultima sfida necessaria: attrarre. Aprire alla migrazione, con un senso e gestita, per far sì che possa contribuire a far crescere il Paese e l’Europa. Con la dovuta umanità, che ci deve contraddistinguere di fronte alle follie a cui assistiamo oltreoceano ultimamente. In questo primo maggio è necessario, di nuovo, purtroppo, ribadire quanto la risposta al futuro stia nella capacità dei Paesi di investire sul lavoro come leva di sviluppo umano e non solo economico.
Garantire occupazione di qualità significa dare alle persone un motivo per restare, per tornare, per costruire. Significa anche trasformare la fuga dei talenti in una circolazione virtuosa, dove competenze e idee attraversano i confini, arricchendo più realtà senza svuotarne una sola.