Parlare ai bambini di temi LGBT+ non è “indottrinamento”, lo è convincerli sia giusto essere omofobi

Ho provato a chiedermi cosa temano i genitori nel lasciare che a scuola si affrontino tematiche LGBTQ+ e non riesco a trovare altre risposte se non quella più banale: l’ignoranza verso certe tematiche ci convince davvero che esporre i nostri figli a questi discorsi possa in qualche modo plagiarli, invece di aiutarli a costruire una società più equa, di cui avremmo bisogno tutti. L'articolo Parlare ai bambini di temi LGBT+ non è “indottrinamento”, lo è convincerli sia giusto essere omofobi proviene da THE VISION.

Apr 17, 2025 - 19:54
 0
Parlare ai bambini di temi LGBT+ non è “indottrinamento”, lo è convincerli sia giusto essere omofobi

Dopo anni a chiederci se la vita imiti davvero l’arte, negli ultimi tempi, visti gli avvenimenti globali, mi sembra siamo passati a domandarci se in realtà la vita non imiti i meme. La destra, dal canto suo, ha sicuramente contribuito in larga misura a questa ipotesi, non solo perché la maggior parte delle dichiarazioni dei sovranisti, anche nostrani, sono così paradossali da sembrare uscite da una pagina satirica, ma anche perché uno dei ritornelli che più ripetono sembra richiamare proprio uno dei miei meme preferiti, recuperato da una scena dei Simpson: “Perché, perché, perché nessuno pensa ai bambini?”.

L’ultimo esempio arriva, di nuovo, dalla smodata passione per la cartellonistica della Onlus Pro Vita & Famiglia, che a Roma ha affisso dei manifesti con frasi come: “Oggi a scuola un attivista LGBT ha spiegato come cambiare sesso”, “La mia scuola ha permesso anche ai maschi di usare i bagni delle femmine” e “Ci hanno letto una favola in cui la principessa era un uomo”. Partorite nel contesto della campagna “Mio figlio no”, sono state poi rimosse per un’ordinanza del comune di Roma, che le ha giudicate “segnate da stereotipi nella rappresentazione della comunità LGBTQIA+, rappresentata come minaccia e dannosa per lo sviluppo dei bambini e dell’infanzia”. La decisione è stata commentata con la solita retorica, cara alle galassie di destra, ultradestra e ai movimenti neocattolici, della censura di “chi la pensa diversamente”. Questo mentre tra affissioni e polemiche social, Pro Vita & Famiglia ha lanciato una raccolta firme per chiedere al ministero dell’Istruzione una legge che vieti di fatto ciò definiscono “progetti sulla fluidità di genere in aula” e “corsi gender”, e che altro non sono, nella realtà, che l’educazione affettiva, sessuale e alle diversità. Un tentativo simile era già fallito lo scorso anno con la proposta di legge costituzionale d’iniziativa popolare “Stop all’indottrinamento gender nelle scuole”, perché la petizione non aveva raggiunto un numero sufficiente di firme. 

Nonostante – lo ammetto con molta onestà – trovi abbastanza divertente che la crociata della Onlus non se la prenda solo con le e gli attivisti LGBTQ+ che “scorrazzano ancora più numerosi nelle scuole” ma anche con il governo Meloni, che a suo dire non avrebbe adeguatamente mantenuto le promesse fatte in precedenza per difendere la famiglia e la libertà educativa, la campagna di Pro Vita & Famiglia è solo l’ennesimo “ultimo atto” di una strategia internazionale volta a sfruttare la difesa dei bambini per creare panico morale e destabilizzare le poche conquiste raggiunte in termini di visibilità e diritti non solo della comunità queer, ma anche relativi alla parità di genere, associando l’educazione sessuale, all’affettività e alle diversità a un tentativo di plagiare i minori, compromettendoli eticamente e rubandone l’innocenza. 

Il panico morale, infatti, è una forma di paura collettiva diffusa, basata sull’idea che un determinato gruppo sociale rappresenti una minaccia per i valori, la sicurezza e gli interessi della società. Questi timori creano rapidamente un senso di coesione sociale, trasformando l’indignazione collettiva in azioni politiche concrete e, spesso, limitative dei diritti: per questo motivo la loro funzione principale non è tanto morale, quanto politica – soprattutto in periodi di crisi economica, instabilità sociale e incertezza. Diffondendo false informazioni e paure relative all’orientamento sessuale, all’identità o all’espressione di genere, questa strategia attiva un istinto primordiale presente in ogni genitore: quello di proteggere il proprio figlio. Un impulso che può facilmente essere indirizzato contro avversari sociali e politici, soprattutto quando non ci si rende conto di essere oggetto di manipolazione. Dicono “non sessualizzate i nostri figli”, mentre chiedono a bambini di appena tre anni se all’asilo hanno la fidanzatina; dicono “proteggete i bambini”, tranne se si tratta di bambini e adolescenti LGBTQ+, vessati dall’omotransfobia, ostacolati nel riconoscimento delle loro famiglie; dicono “giù le mani dai bambini”, mentre ne sfruttano l’innocenza per raggiungere gli obiettivi della propria agenda politica. 

Anche se possono sembrarci recenti, variazioni di questo stesso schema si sono ripresentate più e più volte nel corso dei decenni, alimentate sempre dalla stessa miscela di opportunismo politico e ansia genitoriale di fronte alla rapidità dei cambiamenti sociali e culturali. La falsa e ideologica associazione tra persone LGBTQ+ e pedofilia, per esempio, risale addirittura ai primi decenni del Novecento, quando in Germania diversi professionisti sanitari teorizzarono che l’omosessualità era una condizione non innata ma acquisita, spesso attraverso la seduzione di uomini più grandi. Una concezione che ha finito per ispirare alcune leggi in vigore anche dopo il periodo nazista e che ha travalicato i confini arrivando anche negli Stati Uniti, dove tra il 1947 e il 1955 circa 21 stati adottarono testi per legiferare sulla paura degli “psicopatici sessuali”, fino a che durante la guerra fredda la comunità queer non finì per essere associata anche al comunismo, rinforzando così il pericolo per i bambini – non solo li mangiavano, ma li facevano pure diventare gay. 

Negli ultimi trent’anni, gruppi religiosi, esponenti politici, ricercatori e organizzazioni della società civile che si oppongono attivamente alla parità di genere e sostengono leader o regimi autoritari hanno sempre più costruito alleanze influenti, operando al di là delle proprie differenze religiose e agendo in tutto il mondo per perseguire obiettivi comuni. Uno dei loro strumenti principali è proprio l’uso della retorica della protezione dei bambini per suscitare panico morale, appunto, e indirizzarlo contro leggi, politiche e iniziative che mettono in discussione il modello patriarcale e promuovono una società più inclusiva e rispettosa delle diversità. Questi movimenti sostengono una visione rigida del genere, affermando che la divisione binaria tra uomo e donna sia naturale, universale e immutabile nel tempo e nello spazio, e che l’unico nucleo familiare possibile sia quello cosiddetto “tradizionale”. Chi non rientra in queste categorie ristrette si trova spesso privato di diritti fondamentali e messo in discussione nella propria dignità. Attraverso narrazioni semplificate, basate su disinformazione e interpretazioni distorte dei diritti umani e delle evidenze scientifiche, questi gruppi contribuiscono a creare una visione del mondo fortemente polarizzata.

Come ricostruisce un report stilato da The Elevate Children Funders Group e Global Philanthropy Project, sono tre gli elementi fondamentali che hanno contribuito all’efficacia della strategia transnazionale portata avanti dalla rete composta da esponenti conservatori e movimenti neocattolici. In primo luogo, sono stati in grado di superare le loro differenze di visione per unirsi nel tentativo di contrastare ciò che definiscono “teoria gender”: la più grande costruzione culturale della Chiesa degli ultimi trent’anni, una gigantesca fake news confezionata nel 2010 nel documento “Famiglia, matrimonio e unioni di fatto” che ha permesso di riunire un fronte cattolico altrimenti disperso contro un unico bersaglio. Il secondo elemento chiave è la rappresentazione di alcune istanze progressiste come intrinsecamente incompatibili e opposte alla tutela dell’infanzia, come appunto le narrazioni distorte che dipingono le istanze LGBTQ+ o dei movimenti femministi come pericolosi per l’ordine sociale e l’innocenza dei bambini. Una strategia che fa leva anche sulla moralità dei propri avversari politici che, pur di salvaguardare l’immagine pubblica di sé e non essere trasformati in “mostri”, spesso finiscono per rigettare le loro stesse proposte democratiche per non essere associati alle raffigurazioni più estreme di cui l’umano è capace – come quella di manipolatori di minori –, anche se solo sulla base di motivazioni puramente ideologiche. Infine, il terzo fattore riguarda l’appropriazione sempre più diffusa, da parte di questi gruppi, del linguaggio legislativo e sociale del progressismo per sostenere una visione restrittiva e conservatrice. Una delle loro tattiche più efficaci e problematiche consiste proprio nel presentare iniziative che limitano i diritti come se fossero azioni a tutela degli stessi, come per esempio la strumentalizzazione e riformulazione dei concetti di “diritto alla vita” o di “libertà d’espressione”. Al centro della raccolta di consenso c’è anche il timore che i cambiamenti culturali comportino una perdita di status sociale, politico, economico e culturale da parte di coloro che, storicamente, hanno detenuto il potere, accumulato risorse e opportunità.

È qualcosa che sta accadendo in tutto il mondo, e che negli ultimi anni ha acquisito sempre più influenza e potere. In Ungheria, il partito al governo Fidesz, guidato da Viktor Orbán, dopo aver promosso negli scorsi anni una legge “contro la propaganda LGBTQ+” per vietare la “promozione dell’omosessualità”, ha recentemente approvato delle modifiche costituzionali che impongono il binarismo di genere, non riconoscendo le persone trans e intersessuali, e vietato le manifestazioni della comunità, come il Budapest Pride, limitando il diritto di associazione. Negli Stati Uniti, tra le altre cose, nel 2022 il vicepresidente J.D. Vance definì “groomers”, cioè pedofili, le drag queen e gli alleati democratici, dichiarando che avrebbe smesso di utilizzare quel termine solo quando non avrebbero più “sessualizzato” i suoi figli. Oggi, in aggiunta, dall’insediamento del suo secondo mandato l’amministrazione Trump ha eliminato più di duecento parole dai documenti ufficiali delle agenzie federali americane (tra cui women, disability, equity, sexuality, transgender, promote diversity, non-binary, LGBTQ, minority, intersectionality, inclusivity, gender, feminism, climate crisis e anti-racism), vietato la lettura di determinati testi, imposto il divieto alle donne trans di partecipare alle competizioni sportive femminili e messo fine all’assistenza medica per le persone trans. Già nel 2016, il numero di libri inclusivi presenti nella lista dei libri più banditi nel mondo occidentale raggiungeva il 50%. Anche le leggi per vietare le tematiche LGBTQ+ a scuola non sono nuove, e rientrano nel filone dei provvedimenti “Don’t Say Gay”, che oggi la Corte suprema degli Usa minaccia di introdurre in tutte le classi degli Stati Uniti.

Mentre la destra e il mondo ultracattolico proseguono nell’alimentare lo spauracchio dell’indottrinamento, la mancanza di un’educazione sessuale, affettiva e alle diversità nelle scuole contribuisce ad accrescere una cultura della prevaricazione, del possesso, ma anche della cancellazione, in cui le identità di genere, gli orientamenti sessuali e le forme di famiglia che si distinguono da quelle considerate “normali”, “naturali” e “tradizionali” non sono ancora raccontate né considerate legittime, pur essendo ormai la realtà di molte comunità e persone. La società però è più avanti: secondo un recente sondaggio di Save The Children con Ipsos, il 95% dei genitori ritiene utile introdurre percorsi di educazione affettiva e sessuale a scuola e il 91% è favorevole a renderla una materia obbligatoria. Il rischio, altrimenti, è che la principale fonte di informazione resti la rete, con le false credenze e gli stereotipi che ne conseguono. Pro Vita & Famiglia dirà che una loro indagine mostra una fotografia contraria, con il 95% dei genitori contrari, ma come nota il ricercatore in Studi politici Massimo Prearo su Domani, le risposte sono state molto probabilmente influenzate dal modo in cui sono state poste le domande. 

Ho provato a chiedermi cosa temano i genitori nel lasciare che a scuola si affrontino liberamente tematiche LGBTQ+ e non riesco a trovare altre risposte se non quella più banale: l’ignoranza verso certe tematiche, dovuta alla cultura in cui siamo immersi e al non aver avuto modo di affrontarle crescendo, ci convince davvero che esporre i nostri figli a questi discorsi possa in qualche modo plagiarli, non perché gli permettono di accettare le diversità e imparare a confrontarsi con esse, ma perché pensiamo che possano privarli – e privarci – dell’unico elemento che, insieme ai soldi, può darci valore agli occhi degli altri: l’eterosessualità. In questo solco, è difficile non vedere, nell’attivo disinteresse della politica, un tentativo di tutelare visioni superate e dannose, radicate soprattutto in ambienti cattolici e conservatori storicamente ostili a un confronto aperto sul tema della sessualità e dell’inclusività. A scuola, gli studenti restano così indietro rispetto ai loro coetanei europei, sono più esposti a vivere la sessualità in modo meno consapevole, meno sano e spesso più problematico, si trovano con meno strumenti per affrontare il bullismo che subiscono e che reputano giusto. A pagarne il prezzo, un tempo, siamo stati noi. Oggi, invece, sono i bambini che dovremmo tutelare per davvero.

L'articolo Parlare ai bambini di temi LGBT+ non è “indottrinamento”, lo è convincerli sia giusto essere omofobi proviene da THE VISION.