Movimento 5 Stelle e Lega anti-riarmo? Ecco perché per Meloni e Schlein il pericolo “gialloverde” non esiste
Il Movimento 5 Stelle e la Lega hanno in comune tre cose, oggi. La prima è posizionarsi entrambi contro il piano di riarmo europeo: i contiani scendendo in piazza a […]

Il Movimento 5 Stelle e la Lega hanno in comune tre cose, oggi. La prima è posizionarsi entrambi contro il piano di riarmo europeo: i contiani scendendo in piazza a Roma (a un mese da quella indetta da Michele Serra & C – e pagata dai cittadini romani – a sostegno dell’Europa guerrafondaia), i salviniani minacciando di non votare in parlamento assieme alla maggioranza di centrodestra di cui fanno parte. La seconda è aver vissuto, nel ciclone degli ultimi sei anni, vite sostanzialmente parallele: vincitori assoluti alle elezioni del 2018 (rispettivamente con il 31% e il 17% dei voti), si sono poi ridotti a percentuali ospedaliere, subendo un crollo costante (15% e 8% nelle politiche 2022, e 9% e sempre 8% alle europee 2024). La terza, più importante, è di essere ambedue caratterizzate dalla ricerca di un centro di gravità permanente che hanno trovato, d’accordo, ma standoci parecchio scomodi, recalcitranti a svolgere la parte di ruote di scorta dei partiti egemoni dei due campi: a sinistra, il Pd, e a destra, Fratelli d’Italia. Il guaio di fondo che li accomuna, infatti, è non sapere bene qual è la loro identità. Ossia qual è la loro funzione, nell’attuale quadro della politica italiana. A che serve, oggi, il Movimento 5 Stelle? A che serve, oggi, la Lega?
Se si riformula l’interrogativo domandandosi a chi servono, ovviamente la risposta viene facile: a Giuseppe Conte, Matteo Salvini e alle loro cerchie di fedelissimi. Obiettivo: restare in sella e continuare a giocarsela, in ossequio alla prima regola del politico che prevede, anzitutto, di tirare a campare. Un’ovvietà, appunto. Ma mica tanto. Perché, fra le altre, un’ulteriore caratteristica che apparenta i due partiti è che sono centralizzati e saldamente in pugno ai loro leader. La Lega, per la verità, da sempre. Fin dai tempi di Umberto Bossi. Per i pentastellati, invece, si tratta di una novità recente, da quando Conte è diventato dominus assoluto estromettendo Beppe Grillo, il quale dal canto suo ce l’ha messa tutta, a perdere ogni credibilità benedicendo qualunque giravolta e salto del fosso (dall’abbraccio con il Pd all’appoggio al governo Draghi). Detto questo, è significativo che ai bordi di destra e sinistra scalpitino due sigle che minacciano l’unità e la compattezza dei rispettivi fronti.
Fronti, tuttavia, obbligati. È chiaro come il sole che sia per il M5S che per la Lega il posizionamento, l’uno a sinistra l’altro a destra, non è una scelta: è una necessità. Quando Salvini tuona contro la Von der Leyen e a Bruxelles dice no alla mozione russofoba sul riarmo (con Forza Italia favorevole e FdI astenuta), lo fa per intercettare e massimizzare la quota di elettori a destra che nella guerra in Ucraina hanno simpatizzato per la Russia, e considerano storicamente l’Unione Europea un vincolo soffocante, un cappio al collo della sovranità italiana. Ma a differenza di quando fece cadere il governo gialloverde nel 2019 – quella sì, combinazione inedita e potenzialmente feconda di altri strappi alla regola del “pilota automatico” – adesso Salvini non ha in mano nessun’altra carta alternativa. Se facesse il replay disarcionando la Meloni, non potrebbe andare letteralmente da nessuna parte. Sarebbe un suicidio. Le manovre al “centro” – questa entità metafisica capace di condizionare, grazie alle bizantine leggi elettorali, i seggi di scarto in parlamento – ossia l’avvicinamento al centrodestra della pulviscolare Azione di Carlo Calenda, o i traffici attribuiti a Romano Prodi per la “gamba” centrista con cui mettere la Schlein al guinzaglio, per Salvini sono una strada impraticabile. Coltivare lo spazio a destra della destra è incompatibile, se la logica vale ancora qualcosa, con qualunque ipotesi di aggancio ai “moderati” (qualsiasi cosa significhi questa parola). La Lega, insomma, è in un vicolo cieco. Perciò non può far altro che fare ciò che normalmente fa chi si trova con le spalle al muro: agitarsi. In questo modo, almeno, conquista un’agevole visibilità mediatica. E per il resto, naviga rigorosamente a vista, in attesa di eventi in grado di sbloccare l’impasse.
Per i 5 Stelle, la situazione è leggermente diversa. Anche se l’esito è il medesimo. Usciti dall’ammucchiata di supporto al governo Draghi, gli ex grillini sembravano poter avere una chance di diventare, quanto meno sul piano comunicativo, il motore trainante del “campo largo”. Mentre il Pd, per sua natura profonda, è incondizionatamente “sistemico” e deve portare acqua a qualunque formula che si richiami all’europeismo, al dovere di “responsabilità” e all’automatica diga “antifascista”, il Movimento 5 Stelle, di suo una formazione liquida, priva di capisaldi, animata dal sentimento di rabbia anti-sistemica (del tutto fisiologico in un sistema bloccato), può muoversi con maggiore libertà di movimento, sia pur relativa. E sta in questa relatività il punto: Conte può assumere le posizioni critiche che vuole (per esempio sull’invio delle armi in Ucraina, per altro ripetutamente votate durante l’annata Draghi), ma non può permettersi di tirare la corda che lo collega al Pd fino a spezzarla. Proprio come la Lega, può indulgere nella tattica, ma non può cambiare strategia. E la strategia è, e resta, quella: allearsi con il Pd. Con tutti gli annacquamenti, i compromessi al ribasso e i futuri, ennesimi, voltafaccia del caso. A capirlo meglio di tutti è quel giocatore d’azzardo, abilissimo a stare a galla, che è Matteo Renzi: mentre l’ex compare Calenda strizza l’occhio alla Meloni, lui sopravanza la Schlein, e perfino Conte, nell’attacco ad alzo zero alla premier, e contemporaneamente, tuttavia, dichiara apertis verbis fin d’orache alla prossima tornata elettorale non c’è alcuna preclusione verso il M5S.
Lo scenario più probabile, quindi, vede da un lato l’arcimilionesimo “fronte popolare” (quanto popolare, o quanto impopolare, lo vedremo, fatto salvo l’astensionismo) con dentro Pd, nuovo “centro”, Renzi, i rossoverdi di Avs e M5S, questi ultimi a contendersi il bacino più a sinistra; e dall’altro, un centrodestra guidato, va da sé, da Giorgia, con la Lega intenta ad accalappiare gli scontenti di destra, in una recita a soggetto che spartisce le parti in commedia, ben lungi dal modificare la gerarchia dei fattori. Un dubbio, semmai, può venire su Tajani e Forza Italia, teoricamente sensibili alle sirene del famigerato “centro” in gestazione. Lì bisognerà capire quali sono le intenzioni degli azionisti-ombra del partito azzurro, ossia i figli di Berlusconi. Al momento, i retroscena parlano piuttosto di un Salvini molto seccato per la linea troppo filo-Meloni della programmazione Mediaset. Sulle banche (leggi: Mediolanum), la premier ha prontamente accontentato gli eredi di Silvio. Per il resto, il fido Tajani marca il confine su questioni, come la cittadinanza agli immigrati (jus scholae), che certo non cambiano i rapporti di forza.
In definitiva: allo stato dell’arte, ognuno interpreta il proprio, prevedibile copione. Nella sceneggiata a destra, si assiste a schermaglie destinate a chiudersi al momento del dunque, non tali comunque da oscurare il ferreo allineamento sui fondamentali (uno su tutti, la genuflessione a Israele: è stata la Lega, non Fratelli d’Italia o Forza Italia, a proporre l’anno scorso un’oscena legge per vietare a priori manifestazioni in odore di “antisemitismo”, alla faccia di tutta la prosopopea polemica contro Liliana Segre e l’hate speech). Nella sceneggiata a sinistra, come da tradizione le divisioni sono più incasinate e le alchimie possibili più articolate. Ma divenuta oggi impossibile, per il forte presidio a destra di FdI, la pesca trasversale di consensi che fecero del M5S la prima sigla politica d’Italia, il sentiero è già scritto. A meno che – attenzione – non prenda consistenza un ritorno al proporzionale, o si adotti qualche nuova porcata di legge elettorale pensata per conferire potere di ricatto alle micro-forze. La prima nemica di un’eventualità del genere, tuttavia, si chiama Giorgia Meloni. Alla quale tutto conviene, tranne rischiare di consegnarsi mani e piedi alla fame di posti dei suoi soci di minoranza. Idem per l’insipida, ma non stupida, Elly Schlein.
Alessio Mannino
Ps: nel litigioso mondo del “dissenso”, la manifestazione del M5S del 5 aprile sta suscitando legittime critiche, in qualche caso sfiorando l’invettiva, contro la decisione di Ottolina Tv di parteciparvi. Se ne interpretiamo bene il proposito di Giuliano Marrucci & C, la web-tv più vivace del panorama critico punta a essere presente come soggetto politico-culturale nell’unica piazza decentemente numerosa a favore della pace. Così, inoltre, da rinsaldare e allargare il proprio pubblico in quell’area. In politica, si chiama “entrismo” (solo tattico, secondo Marrucci). Nell’informazione, coltivare il target. Per carità, sarà magari un passo falso che legittima un partito la cui credibilità, come abbiamo detto, è quella che è. Ma in un’ottica tatticista, non è nulla di particolarmente sconvolgente, se appunto si tratta solo di cavalcare un’occasione di mobilitazione con numeri e visibilità importanti. Lo diciamo ai detrattori, specie quelli che palesemente masticano amaro: ogni tanto, uno sguardo più laico, e una dose di bromuro, non guasterebbero.