J.D., CHE CI DICI?
Per chi non lo sapesse J.D. è il Vicepresidente degli Stati Uniti. È Vance. Qualche giorno fa a Monaco, al vertice della sicurezza, ha fatto un discorso agli europei assumendosi […]

Per chi non lo sapesse J.D. è il Vicepresidente degli Stati Uniti. È Vance. Qualche giorno fa a Monaco, al vertice della sicurezza, ha fatto un discorso agli europei assumendosi quasi la parte del fratello maggiore: ci ha ammonito e molti se ne sono risentiti. Vance è un giovane e non ha dietro di sé un curriculum particolarmente significativo. Parla un linguaggio che in Europa poco si capisce o per nulla. Soprattutto non piace quel che predica. Non piace perché mette sul piatto un progetto politico incomprensibile o quasi nel Vecchio Continente. Poi, consciamente o inconsciamente, mette un po’ paura: paura di perderci, di rinunciare qualcosa, di trovarci di punto in bianco esposti.
È così o no? Però non ci dovremmo meravigliare più di tanto: Vance, o il suo maggiore Trump, fanno valere, forse sfrontatamente, la realtà: gli U.S.A. sono l’unica grande potenza dell’Occidente e l’UE non è nulla o quasi. Non è che Biden fosse diverso: diverso erano linguaggio e modi. Ma la sostanza era esattamente la medesima. Ci hanno o no i democratici U.S.A. al governo imposto di sostenere l’Ucraina senza che a noi europei fosse concesso diciamo il diritto di critica? Eppure Biden e i suoi si sono sempre dichiarati paladini dei diritti. Ma non c’è stato nulla da fare: UE non ha minimamente protestato e si è accodata. Vedremo se a fronte di Trump e Vance l’Europa eserciterà i suoi diritti di critica e resistenza: se lo farà, sarà buona cosa, a patto che valuti bene l’interesse degli europei, il che Ursula e i suoi forse non hanno fatto sostenendo a spada tratta Zelensky contro Putin.
V’è però di più, molto di più nel discorso di J.D. Egli ha fatto il grillo parlante e ci lanciato due o tre messaggi che valgono come avvertimenti.
Primo: se siamo democrazie, allora è indefettibile che la volontà popolare regolarmente manifestata conti di più di quel che in Europa sembra oggi contare. Qui il riferimento è precisamente alla volontà della maggioranza: il ritualismo elettorale serve a farla emerge ed emersa, aggiunge Vance, essa non può non governare o, meglio, condizionare l’azione dei governi che ne sono stati investiti per realizzare un certo programma. Si chiamerebbe, credo, sovranità popolare.
Secondo: in qualunque democrazia la libertà di pensiero e di parola sono strutture portanti e penso che non occorra doverlo spiegare. Se mancano o sono conculcate oltre una certa misura, che non deve essere troppo estesa, la democrazia non può esistere: il mercato delle idee dev’essere libero. Non a caso in tutte le costituzioni occidentali queste libertà sono espressamente sancite. Ma potrebbe anche farsi a meno della loro enunciazione espressa: un po’ come il codice civile che impone la restituzione di quanto ti ho prestato, ma se l’obbligo non fosse scritto nella legge, cambierebbe qualcosa?
Vance osserva che, in Europa, ma anche negli U.S.A., la libertà di parola è oggidì in regime di controllo sempre più penetrante e porta degli esempi. Può essere che questi non siano pertinenti. Ma è vero o no che chiunque fra noi, intendo privati cittadini, oggi ci sta parecchio attento e talvolta evita di dire la sua temendo di essere riprovato o peggio, in contesti linguistici sensibili e, anzi, sempre più sensibili? C’è una normalizzazione in atto imposta non tanto o solo politicamente (anche i politici ne patiscono), ma da sistemi di censura e controllo privi di qualunque legittimazione democratica: essi funzionano come una sorta di tribunali della coscienza in grado di frenare e inibire potentemente. Ora questa normalizzazione così perseguita è o no conforme alla democrazia e allo spirito democratico?
Terzo. Per la verità vi è qualche altro passaggio del discorso di J.D. che meriterebbe un supplemento di analisi: su tutti quello in tema di migrazioni verso l’Europa. Il criterio offerto da Vance agli europei è il criterio utilitaristico: è utile o fino a che punto è utile la politica di accoglienza finora adottata? Una valutazione utilitaristica è così consigliata agli europei. In sé non sarebbe anomalo svolgerla o esigerla, a prescindere da ogni decisione finale. Ma qui scendono in campo i diritti ed è scontato che essi prevalgano, chiudano ogni discussione.
Prescindiamo ora dal caso delle migrazioni e dei migranti. Poniamo la questione generale: la protezione dei diritti è senza limite? O, per lo meno, la protezione deve essere eguale per tutti i diritti? Vance non si è spinto fin qua. Ma la questione è sottesa al suo discorso. È una questione essenziale in una democrazia matura. Essa si sta ponendo e lieviterà e dividerà. Da una parte i diritti, una costruzione intellettuale e sentimentale, per quanto originata dalla realtà (e, talora, da una realtà tragica). Dall’altra, la volontà popolare, cioè il fondamento di qualunque democrazia, a fronte della quale i diritti si propongono e si impongono quale limite assoluto. Vi è il rischio che attraverso un dispositivo del genere il potere consegnato al popolo da rivoluzioni nobili finisca con l’essere troppo contenuto per l’intervento di valutazioni espresse da soggetti o gruppi esterni al proceduralismo democratico. Salvo sostenere, e vi è chi lo sostiene, che la democrazia sia nei diritti o si identifichi nei diritti: il passaggio è retoricamente interessante, ma consente di saltare in ogni caso la sovranità popolare e ciò fa problema, almeno teoricamente.
Teoricamente, sì. Ma anche praticamente, almeno in questi ultimi anni. Lo dimostrano le elezioni americane del novembre scorso: parecchi fra coloro che hanno votato per Trump cominciano a pensare che con i diritti, e ciò che ne consegue (l’area del politicamente corretto), si sia andati oltre la misura tollerabile. E alla fine la questione si traduce anche in un problema di ordine: il desiderio di vivere in repubbliche e democrazie bene ordinate è vivo e diffuso. A ciò si lega anche la ripresa delle destre un po’ ovunque in Occidente. Una novità che è bene cogliere: non dico per assecondarla, ma certo per trovare nuovi equilibri.
Rousseau sosteneva che i diritti, e così le minoranze, devono comunque essere conformate dalla legge generale approvata dalla maggioranza del popolo. Una soluzione forse eccessiva. Nel secolo scorso la questione Habermas se l’era pur posta quando identificava l’essenza delle democrazie contemporanee nel connubio tra sovranità popolare e diritti. Forse è accaduto che questo connubio a un certo momento non si è più ispirato al criterio paritario e i diritti hanno trovato la via della prevalenza.
Questa svolta oggi incomincia a suscitare perplessità. Concretamente le cose stanno più o meno come qualche giorno fa ha ammesso in un’intervista Corrado Augias: ci siamo posti qualche decennio or sono ideali immensamente alti ma troppo complicati da raggiungere e verso i quali le persone normali non sono poi così attratte perché in lotta per obiettivi molto meno universali e molto più materiali. Ecco che costoro quando votano – quelli che vanno a votare – tengono in considerazione prima di tutto questi obiettivi. Può piacere o no, ma questa è una delle ragioni per cui Trump ha vinto.
Vi è poi l’altra parte dell’Occidente: quella che ha votato la Harris o, che so, quella che in Italia vota PD. Ne segue una divisione profonda, una spaccatura che indebolisce le nostre democrazie. Credo che occorrerebbe trovare un accordo: una mediazione che restituisca alla sovranità popolare il ruolo che le compete, anche a fronte delle minoranze. Ma occorrerebbe un nuovo pensiero politico e, prima ancora, intellettuali in grado di elaborarlo. Prima o poi arriveranno.