Investimenti: come muoversi in uno scenario di pace e inflazione
È quasi intuitivo e quasi vero che la guerra porta inflazione e la pace porta disinflazione e normalità. Questo accade sempre se si confronta l’inflazione nell’ultima fase di una guerra con quella di cinque anni dopo l’inizio della pace. Ma non è sempre vero che nella fase immediatamente successiva al conflitto l’inflazione prenda immediatamente a... Leggi tutto

È quasi intuitivo e quasi vero che la guerra porta inflazione e la pace porta disinflazione e normalità. Questo accade sempre se si confronta l’inflazione nell’ultima fase di una guerra con quella di cinque anni dopo l’inizio della pace. Ma non è sempre vero che nella fase immediatamente successiva al conflitto l’inflazione prenda immediatamente a scendere. In non pochi casi, storicamente, è stato vero il contrario. Si pensi, per fare l’esempio più famoso, all’ondata d’inflazione del 1946-47 negli Stati Uniti. Il fatto che quell’ondata, paragonabile per dimensioni a quella degli anni del Covid, sia stata fabbricata a tavolino dalla Fed non ne limita la portata. Gran Bretagna e Stati Uniti hanno del resto una lunga tradizione di operazioni di finanza straordinaria quando si tratta di riportare alla normalità il debito pubblico salito velocemente per le necessità della guerra. Il consolidamento dei titoli del Tesoro (il concambio di un titolo con normale scadenza con un bond irredimibile in cambio di una cedola perpetua) è una tradizione britannica dall’inizio del XVIII secolo.
Anche la riconversione dell’economia dalla produzione di armi a quella di beni di uso civile non è scontata, almeno questa volta. La Russia, che ha gestito sotto la direzione tecnocratica del governo Mushustin l’economia di guerra, effettuerà verosimilmente una transizione molto graduale verso l’economia di pace. Gli stock di armi e munizioni sono scesi e vanno ricostituiti in tempi brevi, perché quello che si profila non è necessariamente un lungo periodo di pace, ma una fase geopolitica instabile e fragile, che potrebbe tornare tesa da un momento all’altro.
Lo stesso discorso vale anche per l’Europa, che non deve solo ricostituire le scorte di armi donate all’Ucraina, ma portare la sua capacità militare a un livello molto più alto di quello che ha storicamente avuto dopo la formazione della Nato nel 1949. E anche gli Stati Uniti, che pure si apprestano a raggiungere un accordo con la Russia e che puntano a un miglioramento delle relazioni con la Cina, hanno in programma, in piana sintonia bipartisan tra amministrazione e Congresso, un forte aumento delle spese militari già dal prossimo bilancio. È vero che i droni, che costano poco, si stanno rivelando sui teatri di guerra, specie se dotati di intelligenza artificiale, almeno altrettanto efficaci di portaerei e aerei da caccia, che costano moltissimo, ma, nel dubbio, sia in Europa sia in America si spenderà di più per tutti i tipi di armi, sia nuovi sia tradizionali.
Ecco allora che si apre comunque, anche in presenza di un assestamento in Medio Oriente e in Ucraina, un dopoguerra di inflazione e di aumento della spesa pubblica per armamenti. La presenza di Trump alla Casa Bianca garantisce che l’Europa non potrà sottrarsi, come fece con la prima amministrazione Trump, a queste maggiori spese. Se lo farà di nuovo, incorrerà in pesanti sanzioni tariffarie. L’America, inoltre, non vuole dall’Europa solo il riarmo, ma anche un impegno diretto come forza di interposizione in Ucraina e come finanziatore esclusivo degli ingenti costi per la ricostruzione.
Con le forze politiche mainstream impegnate in Germania e in Francia a difendersi dalle forze alternative, lo spazio per finanziare le maggiori spese con nuove tasse non esiste e si ricorrerà quindi al debito. Mentre storicamente, come abbiamo visto, il debito viene sgonfiato dopo una guerra, questa volta, in Europa, aumenterà. Lo stesso accadrà, per motivi diversi, anche in Cina. Le dimensioni della politica fiscale espansiva cinese dipenderanno da quanto l’amministrazione Trump e l’Europa intenderanno colpire Pechino con nuovi dazi, ma saranno comunque rilevanti.
Per limitare l’aumento del debito/Pil tutti, tranne la Cina, finiranno con l’approfittare della pressione inflazionistica che sta ritornando visibile. A questa pressione non si permetterà di assumere di nuovo le proporzioni degli anni scorsi, ma si eviterà comunque di frenarla con politiche monetarie restrittive. L’atteggiamento che vediamo prevalere nelle banche centrali non è quello di negare l’inflazione, ma quello di parlarne il meno possibile e di continuare, almeno in Europa, a tagliare i tassi di policy.
In pratica, le banche centrali hanno abbandonato la loro linea restrittiva nell’estate (Bce) e nell’autunno (Fed) del 2024, con l’inflazione di servizi ancora ampiamente al di sopra del 2%. Ora, con l’accelerazione della crescita e la ripresa della spesa pubblica, sono pronte a tollerare il 3 per cento su tutta la linea. Tagliare i tassi troppo presto fu l’errore tipico degli anni Settanta e anche questa volta si sceglie di correre qualche rischio.
Molto si gioca negli Stati Uniti. Qui, sulla carta, potrebbe esserci un bilanciamento degli effetti delle novità di politica economica introdotte dalla nuova amministrazione, ma in pratica prevarrà a lungo l’incertezza. Come si bilanceranno i tagli delle spese di Musk con i tagli delle imposte su cui Trump si è impegnato? Come si bilanceranno, per le imprese, le minori spese dovute al drastico taglio delle regole con la tensione sul mercato del lavoro che si sta profilando nei settori che negli anni scorsi hanno utilizzato di più l’immigrazione?
In un contesto pro-crescita e pro-business come quello che si profila, resta interessante una strategia barbell composta da titoli obbligazionari brevi e da azioni. Le obbligazioni lunghe possono avere un ruolo solo se si ipotizza uno scenario di repressione finanziaria come quello del decennio scorso oppure se si ritiene possibile che l’insieme delle misure dell’amministrazione Trump porterà a un rallentamento della crescita. Per ora è presto per arrivare a queste conclusioni. Non bisogna però perdere di vista il fatto che la Fed e il Tesoro, negli Stati Uniti, si apprestano a cambiare le regole per gli investitori istituzionali e a incentivare ulteriormente l’acquisto di titoli del debito pubblico. Secondo alcune stime, queste nuove misure potrebbero valere fino a 50 punti base di riduzione dei rendimenti sui Treasuries decennali, di cui 10 già incorporati nei prezzi.
Un altro tema su cui tornare a riflettere sono le materie prime, che nei due anni passati, con la loro stabilità, hanno dato un importante contributo al processo di disinflazione e che ora, con il risveglio della produzione industriale globale e le politiche economiche espansive in preparazione ritroveranno una buona domanda.
Il petrolio e il gas naturale saranno oggetto di una particolare attenzione da parte dell’amministrazione Trump e entreranno sicuramente nei negoziati tra Russia e America che si stanno aprendo. Trump ha bisogno di un prezzo che stimoli da una parte un forte aumento della produzione domestica di fossili ma, dall’altra, che non pesi sui consumatori generando inflazione. Molti Paesi, incluse Cina ed Europa, si preparano a importare più fonti di energia dall’America per bilanciare l’interscambio commerciale, ma il rischio è che l’offerta non sia adeguata. Alla fine, un prezzo stabile sui valori attuali potrebbe essere un punto di equilibrio tanto per Trump quanto per Putin.
Le altre materie prime, meno soggette a vincoli politici, dovrebbero continuare a muoversi complessivamente verso l’alto (in particolare quelle industriali) ed essere quindi oggetto di attenzione da parte degli investitori.
A cuira di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos (rubrica Il Rosso e il Nero)