Il Pop management per favorire la varietà culturale in azienda
I dati parlano chiaro: il fenomeno dell’abbandono del lavoro in Italia non è finito. Così come la discussione su come interpretare il tema lavoro nel contesto attuale (da Mark Up 337 - marzo 2025) Se per alcuni osservatori, come Francesca Coin, autrice del libro Le grandi dimissioni, il fenomeno del quitting è in rallentamento e in riassestamento verso settori a maggiore tutela sindacale, i dati continuano a evidenziare una crisi di coppia con il lavoro. Sebbene questa segua cicli naturali, coincidenti con la necessità di rivedere l’organizzazione sociale in relazione all’introduzione di nuove tecnologie, il lockdown ha innescato un cambiamento molto più profondo, spingendo le persone a riflettere sul senso (o sulla mancanza di senso) del tempo impiegato in ambienti e attività lavorative. Anche la sospensione delle normali routine spazio-temporali ha fatto emergere il piacere di vivere in modo più creativo. La necessità di dare un senso a quelle giornate traumatiche ha, dopo un primo spaesamento, rafforzato la consapevolezza della propria agency, della capacità di auto-organizzazione e di talenti insospettati. Al contrario, alcuni si sono sentiti traditi da aziende che per anni si erano presentate come una famiglia, coltivando aspettative di legami affettivi, ma che, nelle difficoltà, non sono state percepite come custodi di quel patto. Si è così scoperta, in molti casi, una relazione tossica che ha portato alla decisione di interrompere il rapporto di lavoro. Nel frattempo, gli studi e la divulgazione sul benessere psicologico e sulle tecniche di manipolazione del consenso hanno alimentato un disincanto e una crescente sfiducia nei confronti del lavoro, soprattutto quando smascherato come inutile. Si parla sempre più spesso di burnout, svuotamento di senso e crollo della motivazione (i dati indicano che il 57% dei lavoratori statunitensi ne è colpito). Nuove abitudini L’accelerazione forzata nell’uso delle tecnologie ne ha evidenziato sia gli aspetti positivi sia quelli negativi, ma ha comunque introdotto nuove abitudini, anche aziendali. Per alcuni lavoratori, questi strumenti rappresentano una soluzione, per altri una fonte di stress. Se i modelli predittivi, come quelli usati in finanza, suggerirebbero che il ciclo naturale delle trasformazioni sociali stia riportando alla normalità (nella narrazione retorica, lo step dello slancio verso una nuova sintesi ecosistemica), la realtà mostra invece un dibattito ancora aperto tra diverse formule e visioni. Non si tratta più solo di far convivere individuo e brand, ma di ripensare il rapporto tra vita e lavoro all’interno di spazi e regole capaci di conciliare libertà e sicurezza. Una sicurezza che non è più solo fisica e una libertà che passa anche attraverso il movimento del corpo. In questo equilibrio precario, i manager Hr cercano nuove ispirazioni. Mentre i lavoratori abbandonano gli strumenti di protesta collettiva e adottano strategie come il quiet quitting -limitandosi al minimo contrattuale per trattenere il valore immateriale della propria creativitàle aziende riscoprono il valore del collettivo, scambiandosi esperienze, idee e opinioni. Da qui si parte. Da organizzazioni a community narrative Mai come in questi tempi si sta vivendo un ripensamento del significato del lavoro. Tra le iniziative emergenti, spicca il Pop Management, ideato da Marco Minghetti, che ha evoluto le riflessioni del progetto Humanistic Management e del libro Intelligenza Collettiva, trasformando il rischio di populismo in una cultura pop applicata alla gestione aziendale. Marco Minghetti, ideatore del Pop Management Se la ricerca di senso nel proprio tempo non passa più attraverso l’etica del lavoro tradizionale, ma attraverso l’indipendenza economica e morale, cosa devono offrire le aziende? È in corso un cambio di paradigma: il lavoro, fatta salva la tutela retributiva, non deve essere solo un mezzo per guadagnarsi da vivere, ma una dimensione in cui ognuno può esprimere la propria identità, trovare realizzazione personale e contribuire a un progetto comune, attraverso strumenti di comunicazione, formazione e gestione analoghi a quelli che le persone utilizzano quotidianamente fuori dall’azienda e che riconoscono portatori di contenuti valoriali in cui si identificano. In altre parole, l’azienda per dialogare con tutti i suoi stakeholder deve essere in grado di competere con tutto ciò che nel mondo contemporaneo assume le forme (i format) della cultura pop: un podcast, un videogioco, una serie tv, un reel - veicolando i principi della cura reciproca, dell’empatia sistemica, della convivialità. I collaboratori devono essere valorizzati nel loro contenuto creativo, implementando logiche del lavoro che superino le vecchie logiche competitive per favorire occasioni in cui possano essere co-creatori dei valori dell’organizzazione. A che punto siamo in Italia? Quali strumenti hanno le aziende per recuperare e migliorare le relazioni con i lavoratori? E come si proteggono i colla


Se per alcuni osservatori, come Francesca Coin, autrice del libro Le grandi dimissioni, il fenomeno del quitting è in rallentamento e in riassestamento verso settori a maggiore tutela sindacale, i dati continuano a evidenziare una crisi di coppia con il lavoro. Sebbene questa segua cicli naturali, coincidenti con la necessità di rivedere l’organizzazione sociale in relazione all’introduzione di nuove tecnologie, il lockdown ha innescato un cambiamento molto più profondo, spingendo le persone a riflettere sul senso (o sulla mancanza di senso) del tempo impiegato in ambienti e attività lavorative. Anche la sospensione delle normali routine spazio-temporali ha fatto emergere il piacere di vivere in modo più creativo. La necessità di dare un senso a quelle giornate traumatiche ha, dopo un primo spaesamento, rafforzato la consapevolezza della propria agency, della capacità di auto-organizzazione e di talenti insospettati. Al contrario, alcuni si sono sentiti traditi da aziende che per anni si erano presentate come una famiglia, coltivando aspettative di legami affettivi, ma che, nelle difficoltà, non sono state percepite come custodi di quel patto. Si è così scoperta, in molti casi, una relazione tossica che ha portato alla decisione di interrompere il rapporto di lavoro. Nel frattempo, gli studi e la divulgazione sul benessere psicologico e sulle tecniche di manipolazione del consenso hanno alimentato un disincanto e una crescente sfiducia nei confronti del lavoro, soprattutto quando smascherato come inutile. Si parla sempre più spesso di burnout, svuotamento di senso e crollo della motivazione (i dati indicano che il 57% dei lavoratori statunitensi ne è colpito).
Nuove abitudini
L’accelerazione forzata nell’uso delle tecnologie ne ha evidenziato sia gli aspetti positivi sia quelli negativi, ma ha comunque introdotto nuove abitudini, anche aziendali. Per alcuni lavoratori, questi strumenti rappresentano una soluzione, per altri una fonte di stress. Se i modelli predittivi, come quelli usati in finanza, suggerirebbero che il ciclo naturale delle trasformazioni sociali stia riportando alla normalità (nella narrazione retorica, lo step dello slancio verso una nuova sintesi ecosistemica), la realtà mostra invece un dibattito ancora aperto tra diverse formule e visioni. Non si tratta più solo di far convivere individuo e brand, ma di ripensare il rapporto tra vita e lavoro all’interno di spazi e regole capaci di conciliare libertà e sicurezza. Una sicurezza che non è più solo fisica e una libertà che passa anche attraverso il movimento del corpo. In questo equilibrio precario, i manager Hr cercano nuove ispirazioni. Mentre i lavoratori abbandonano gli strumenti di protesta collettiva e adottano strategie come il quiet quitting -limitandosi al minimo contrattuale per trattenere il valore immateriale della propria creativitàle aziende riscoprono il valore del collettivo, scambiandosi esperienze, idee e opinioni. Da qui si parte.
Da organizzazioni a community narrative
Mai come in questi tempi si sta vivendo un ripensamento del significato del lavoro. Tra le iniziative emergenti, spicca il Pop Management, ideato da Marco Minghetti, che ha evoluto le riflessioni del progetto Humanistic Management e del libro Intelligenza Collettiva, trasformando il rischio di populismo in una cultura pop applicata alla gestione aziendale.
Se la ricerca di senso nel proprio tempo non passa più attraverso l’etica del lavoro tradizionale, ma attraverso l’indipendenza economica e morale, cosa devono offrire le aziende?
È in corso un cambio di paradigma: il lavoro, fatta salva la tutela retributiva, non deve essere solo un mezzo per guadagnarsi da vivere, ma una dimensione in cui ognuno può esprimere la propria identità, trovare realizzazione personale e contribuire a un progetto comune, attraverso strumenti di comunicazione, formazione e gestione analoghi a quelli che le persone utilizzano quotidianamente fuori dall’azienda e che riconoscono portatori di contenuti valoriali in cui si identificano. In altre parole, l’azienda per dialogare con tutti i suoi stakeholder deve essere in grado di competere con tutto ciò che nel mondo contemporaneo assume le forme (i format) della cultura pop: un podcast, un videogioco, una serie tv, un reel - veicolando i principi della cura reciproca, dell’empatia sistemica, della convivialità. I collaboratori devono essere valorizzati nel loro contenuto creativo, implementando logiche del lavoro che superino le vecchie logiche competitive per favorire occasioni in cui possano essere co-creatori dei valori dell’organizzazione.
A che punto siamo in Italia? Quali strumenti hanno le aziende per recuperare e migliorare le relazioni con i lavoratori? E come si proteggono i collaboratori da un nuovo tipo di sfruttamento, quello creativo della propria immagine?
La premessa è creare luoghi autentici in cui sia ospitato anche il dissenso e soprattutto la capacità di leggersi anche in negativo prendendosene la responsabilità: questa è la condizione che ci rende umani e ci consente di essere una pluralità connessa di esseri unici. Dare voce in capitolo significa accettare anche un rifiuto rispetto alla narrazione condivisa, purché il dissenso si trasformi in azioni concrete e rispettose della maggioranza, che possono rendere anche più vitale un’organizzazione, perché la trasgressione alla regola dà spazio alla flessibilità della regola stessa. Ci sono poi tre azioni, che ritengo fondamentali. Il primo prevede di creare un contesto di significato condiviso. Le organizzazioni devono evolvere in “community narrative” dove ogni individuo contribuisce a una storia collettiva, capace di integrare obiettivi personali e valori aziendali. Qualche esempio: l’utilizzo di graphic novel (un trend in crescita), podcast, docufilm e web serie. Abbiamo nella nostra comunità buoni esempi, come l’iniziativa di Carrefour e di Bip, in cui i dipendenti diventano protagonisti. Ma pure videogiochi (anche immersivi, utilizzando quindi la realtà virtuale) per la formazione sia tecnica che manageriale; il secondo impegno con i collaboratori è praticare nel quotidiano i valori dichiarati. Le persone cercano ambienti di lavoro dove sono messi in pratica i valori dichiarati dall’azienda in ognaspetto dei processi di selezione, gestione e sviluppo, riempendo di senso tutta quella che in termini tecnici è chiamata employee experience. È poi infine fondamentale contrastare l’appiattimento culturale, anche di nuova generazione. Le aziende devono smettere di spacciare per Cultura Pop un populismo piegato alle logiche di un pensiero unico dominante, usato come strumento per standardizzare le individualità anziché valorizzarle. Anche la cultura cosiddetta woke, che propone inclusione, rischia invece, se imposta, di rendere faticosa la trasformazione culturale spontanea, basata sulla naturale propensione alla convivenza. Bisogna evitare il rischio di appiattire le unicità sulle norme imposte da culture egemoniche, soffocando l’autenticità e la diversità.
Gli studi sulla salute mentale e il suo legame con la produttività hanno cambiato qualcosa nel management? Si è ritornati a una maggiore consapevolezza della cura di sé (l’antica epimeleia eautou)?
La riscoperta della cura di sé è un’opportunità per le aziende di ridefinire il proprio ruolo non solo come entità economiche, ma anche come spazi di crescita e benessere integrale. In particolare, occorre, in primo luogo, incorporare la cura di sé come valore fondante. Le aziende devono riconoscere che la cura di sé non è un atto individualistico, ma una pratica che ha ripercussioni positive sul collettivo. D’altro canto, creare engagement significa riconoscere che non tutti rispondono agli stessi stimoli. Questo è possibile solo se si è attenti a favorire una leadership “convocativa. La leadership non deve essere autoritaria, ma “convocativa”, ovvero che si distingue per la sua capacità di “convocare” persone, idee e risorse verso uno scopo comune, creando un senso di appartenenza e collaborazione attiva. È poi fondamentale incoraggiare il “job crafting”, che sta ridefinendo il modo in cui le persone vivono la propria crescita professionale: si accettano sempre meno passivamente le mansioni assegnate, ma si cerca attivamente di modellarle in base alle proprie inclinazioni, competenze e aspirazioni. L’azienda deve infine impegnarsi a creare spazi per il benessere fisico, mentale ed emotivo. Una recente ricerca del Cerc ha mostrato che «l’approccio al benessere dei collaboratori dovrebbe essere olistico e includere le componenti fisiche, psicologiche, di vita personale e sociali, attraverso pratiche dedicate a sostenere queste componenti in modo specifico».
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