IL MERCATO DEL CAFFÈ tra norme Europee e AI. Scocchia, Illycaffè: «Investiamo in Cina. E sulla quotazione…»
I dazi USA del 25% sulle importazioni dalla Colombia, terzo produttore mondiale di caffè e tra i principali fornitori per gli Stati Uniti, creano nuove turbolenze nel commercio globale della commodity. Nel corso degli ultimi cinque anni, i prezzi del caffè verde – che si suddivide principalmente nelle varietà Arabica e Robusta – hanno raggiunto livelli […] L'articolo IL MERCATO DEL CAFFÈ tra norme Europee e AI. Scocchia, Illycaffè: «Investiamo in Cina. E sulla quotazione…» proviene da ilBollettino.

I dazi USA del 25% sulle importazioni dalla Colombia, terzo produttore mondiale di caffè e tra i principali fornitori per gli Stati Uniti, creano nuove turbolenze nel commercio globale della commodity.
Nel corso degli ultimi cinque anni, i prezzi del caffè verde – che si suddivide principalmente nelle varietà Arabica e Robusta – hanno raggiunto livelli record, con un picco nel 2024. Nel 2020, l’Arabica era sui 120 centesimi di dollaro per libbra.
Quattro anni dopo ha toccato i 257, con un aumento di oltre il 100% sui livelli pre-pandemia, e i futures continuano a segnare un rally straordinario nel 2025. Ma è la varietà Robusta, principale produzione dei Paesi asiatici, che ha visto il maggior incremento.
Nel 2020 la quotazione era di 1.200 dollari per tonnellata, nel 2024 è salita a circa 4.195. Ma che cosa spinge così in alto i prezzi? «Una tempesta perfetta si sta abbattendo sul settore del caffè a livello globale», dice Cristina Scocchia, A.D. Illycaffè.
E le aspettative crescono: entro 2030 per il Mercato mondiale – oggi di 138.37 miliardi di dollari – si stima un valore 174.25 miliardi, con un CAGR del 4.72%, mentre in Italia – dove si consuma una media di circa 5,5 kg di caffè pro capite – è del 3.35%. Ma ad aumentare è anche il prezzo della tazzina, che potrebbe arrivare a sfiorare i 2 euro nei prossimi mesi.
Perché? Principalmente per due fattori: acquisti speculativi e incertezza riguardo all’offerta globale. Ma non solo. Le condizioni meteo per il Brasile, il più grande produttore mondiale, fanno pensare a una riduzione della produzione per la grave siccità che lo ha colpito nel 2024.
La materia prima per la stagione 2025/26 subirà una contrazione del 4,4% – dice l’agenzia governativa brasiliana per le previsioni agricole (CONAB) – scendendo a 51,81 milioni di sacchi, il livello più basso degli ultimi tre anni. E poi c’è la qualità del caffè proveniente da altre regioni dell’America Centrale, che è compromessa da ritardi nei raccolti dovuti invece alle forti piogge.
Una situazione complicata, sulla quale influisce anche l’introduzione da parte dell’Unione Europea di leggi più severe per prevenire l’importazione di prodotti legati alla deforestazione. “Nessun caffè deve provenire da terreni deforestati”: la norma riguarda sette materie prime (bovini, cacao, caffè, olio di palma, gomma, soia e legno) e molti prodotti derivati.
Però a incrementare i prezzi si aggiunge un altro fattore: l’Organizzazione Internazionale del caffè (ICO) ha annunciato che la produzione globale per la stagione 2023/24 è aumentata del 5,8%, raggiungendo un record di 178 milioni di sacchi, grazie a un eccezionale raccolto. Anche il consumo globale è salito, del 2,2%, portando a un surplus di appena un milione di sacchi.
In Italia, nel settore, operano circa un migliaio di aziende, con una occupazione di 7.000 addetti e un giro d’affari dell’industria sui 5,2 miliardi di euro (dati 2023), di cui circa 2,3 miliardi derivanti dall’esportazione e 2,9 miliardi dal Mercato interno. Siamo il terzo Paese globale per l’importazione di caffè verde (dopo USA e Germania) e rappresentiamo il secondo nella UE (dopo la Germania) per export di caffè torrefatto.
Le importazioni
Da dove prende la materia prima l’industria italiana? Lavora il caffè verde importato da produttori dell’America Latina, Africa e Sud-Est asiatico: oltre l’80% proviene da Brasile (31%), Vietnam (23%), Uganda (15%), India (8%) e Indonesia (3%).
Dopo le difficoltà in piena pandemia, nel 2022 le importazioni si erano riavviate e avevano superato la soglia record di 724 milioni di kg, ma nel 2023 hanno subito un calo del 4,4%, scendendo a 692,5 milioni di kg (Fonte: Comitato Italiano Caffè).
La causa? La forte pressione inflazionistica e la conseguente diminuzione dei consumi. Oggi il prezzo medio di acquisto è intorno ai 3,1 euro al chilo: 2,4 euro per la varietà Robusta e 3,7 euro per l’Arabica.
Le esportazioni
Il caffè verde importato dall’industria italiana viene trasformato in caffè tostato, per i consumi interni e per l’export. I Paesi europei ne assorbono circa il 60%. I principali acquirenti sono Germania, Francia, Polonia, Austria, Grecia e Svizzera. Fuori dall’UE, invece, spiccano Regno Unito, USA, Australia, Russia e Canada.
Al netto del Covid-19, nell’ultimo decennio, il volume delle esportazioni italiane è più che raddoppiato. Anche se nel 2023 è diminuito dall’anno precedente a causa della situazione internazionale. Ma a tassi più contenuti rispetto al calo delle importazioni (dati del Comitato Italiano Caffè – Unione Italiana Food).
I volumi esportati sono stati di 365 milioni di kg di caffè verde (circa 286 milioni di kg di tostato), con una diminuzione del 2,2% sul 2022. In valore? Circa 2,3 miliardi di euro.
Ma nella tazzina non c’è solo caffè. Negli ultimi anni, l’Internet of Things (IoT) ha avuto un impatto significativo anche in questo comparto sia per la produzione, sia nella coltivazione e nel modo in cui le macchine interagiscono con gli utenti e l’ambiente.
Un esempio? La connettività consente di monitorare le prestazioni delle macchine ed eventuali anomalie, prevenendo i tempi di fermo grazie alla manutenzione predittiva.
Un altro aspetto è la personalizzazione del consumatore: le macchine possono adattarsi automaticamente alle esigenze specifiche di chi le utilizza. Inoltre l’intelligenza artificiale sta rendendo le macchine sempre più autonome e precise, introducendo funzionalità avanzate come il brew-by-weight. Questo sistema, basato su machine learning e algoritmi predittivi, ferma l’estrazione al momento giusto, garantendo sempre la dose perfetta della bevanda.
La domanda cresce, anche se la complessità dell’integrazione è un ostacolo ancora importante. Molte tecnologie IoT devono essere adattate a infrastrutture già esistenti non progettate per supportarle, rendendo il processo costoso e complesso. E servono anche professionisti preparati per gestire questa repentina evoluzione e salvaguardare i nostri prodotti…
Siamo in un periodo di risiko bancario, nel vostro settore c’è la stessa tendenza M&A da parte di gruppi stranieri o come si riesce a proteggere il Made in Italy?
«Visti gli elevati livelli di costo della materia prima a cui il settore è esposto in questo momento storico, è possibile che i piccoli produttori si trovino ad affrontare problemi legati ai flussi di cassa, con conseguenti risvolti sulla sostenibilità finanziaria. Questo potrebbe potenziare l’attività di M&A nel settore, in particolare sui piccoli torrefattori locali. Di contro, ritengo che i principali operatori globali abbiano una dimensione e solidità tale da non finire nel mirino di player stranieri».
I prezzi alle stelle e la situazione internazionale comunque non aiutano a prendersi rischi per il futuro: dove indirizzate i vostri investimenti?
«In questo scenario, per quanto ci riguarda, il lavoro sull’efficienza operativa fatto negli ultimi tre anni, unito alla qualità, all’innovazione e alla forza del marchio e dei prodotti illycaffè ci hanno permesso di continuare a crescere, in tutti i canali e in tutti i principali Paesi. I risultati del 2024 sono molto positivi e nel 2025, nonostante il prezzo del caffè verde, continueremo a investire sulla valorizzazione della marca e nell’espansione internazionale.
Il nostro blend è composto da nove origini di caffè 100% Arabica, che acquistiamo dai Paesi equatoriali, in particolare Brasile, Nicaragua e Guatemala. Ma anche Colombia, Costa Rica, Etiopia e India. Il nostro Mercato di sbocco più importante – dopo l’Italia, che conta circa il 30% del fatturato – è quello americano, che pesa circa il 20%. In termini di consumo, gli Stati Uniti sono il Mercato più grande a livello mondiale e i prodotti Made in Italy di qualità incontrano le preferenze dei consumatori».
Pensate a una quotazione?
«La decisione di quotarsi in Borsa spetta agli azionisti, anche se resta un obiettivo strategico di medio termine. Il progetto rimane, ma ovviamente i tempi cambiano…»
Quando era AD in Kiko, per cercare il successo ha intrapreso la strada degli investimenti in innovazione, trasformazione digitale ed espansione geografica in Medio Oriente ed Asia: questa direzione è sempre quella vincente o cambierà qualcosa? Magari verso altri Mercati…
«In salita si accelera, sempre. È l’unico modo per scollinare. Che la crisi sia aziendale, come nel caso di KIKO, o di settore, come nel caso della illycaffè, se ne esce con una ricetta molto simile: migliorare l’efficienza operativa e investire nella crescita.
Nonostante lo scenario complesso, segnato da crisi globali, dall’aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime e da un contesto geopolitico incerto, abbiamo confermato i 120 milioni di euro di investimento a Trieste, dove vogliamo raddoppiare la capacità produttiva e logistica.
I lavori per la nuova tosteria sono iniziati in questi mesi e procedono a pieno ritmo. Continueremo a investire anche nella crescita dei nostri Mercati principali – Italia, Stati Uniti, Francia, Spagna e UK – ma anche Sud Corea, Medio Oriente e Cina».
E si ritorna in Asia…
«La Cina è certamente un Mercato dominato dal tè, ma siamo presenti con una filiale e stiamo lavorando per costruire una partnership forte con un distributore locale».
È diventata Amministratore Delegato a quarant’anni e ha ricoperto questo ruolo tre volte. Come ha sfondato il tetto di cristallo?
«Con tanta determinazione, impegno e passione. Sono nata in provincia, in un piccolo paese della Liguria, da una famiglia di insegnanti e in più donna. Sapevo che realizzare i miei obiettivi professionali non sarebbe stato facile. Mi sentivo come un giocatore che vuole fare poker ma è consapevole di avere solo tre carte in mano. Il più grande ostacolo che ho dovuto superare è stato proprio quello di trovare l’opportunità di dimostrare se e quanto valevo. Ma alla fine la tenacia mi ha ripagata.
Sono riuscita a realizzare il mio sogno di bambina, quello di diventare Amministratore Delegato. Credo che il coraggio sia ciò che fa la differenza. Bisogna guardarsi dentro, capire che cosa si vuole e avere il coraggio di provarci. Comunque vada a finire, vale sempre la pena scendere nell’arena».
Studi all’estero, carriera internazionale: l’Italia non basta a formare manager di livello?
«Ho costruito la mia carriera in un’azienda americana. E ho trascorso oltre 13 anni all’estero, spesso mi chiedo se sarei mai diventata amministratore delegato a quarant’anni se fossi rimasta in Italia. Nel nostro Paese il punto di partenza e l’essere donna purtroppo sono ancora particolarmente penalizzanti. Il talento è equamente distribuito tra ricchi e poveri e tra uomini e donne ma le opportunità di dimostrarlo… quelle no, non sono equamente distribuite. La meritocrazia esiste, ma non è ancora ampiamente diffusa».
Nel suo libro Il Coraggio di Provarci – Una storia controvento scrive: «se fin da adolescente senti che le condizioni da cui parti e le aspettative degli altri hanno già deciso chi diventerai, continuare a sognare è il primo passo per porti obiettivi fuori dagli schemi e avvicinarti a realizzare chi sei». Un esempio per molti che non vedono oltre la propria comfort zone…
«È importante guardarsi dentro e capire chi si vuole diventare. Se non sai dove vuoi andare, non ci sarà buon vento che ti ci porti. Io fin da bambina sognavo di diventare Amministratore Delegato.
Vedevo davanti a me una montagna molto alta, ma il mio desiderio era arrivare in vetta. Sapevo che sarebbe stato difficile e che avevo ottime possibilità di non farcela. Mi sono impegnata con passione, determinazione e qualche sacrificio e ho avuto la fortuna di realizzare il mio obiettivo professionale».
«La leadership non è potere, è responsabilità», si legge ancora: è un bel cambiamento culturale da portare avanti, come ci riesce?
«Ora più che mai serve una leadership etica e partecipativa, la volontà di integrare il valore con i valori, gli obiettivi economici con quelli etici, sociali ed ambientali.
Da sempre il leader di un’organizzazione deve pensare in maniera strategica e saper prendere decisioni. Anche difficili, in maniera tempestiva e trattenendo sulle proprie spalle la pressione. Deve creare team forti in cui tutti sono motivati a dare il massimo per il raggiungimento del successo collettivo.
Ma oggi questa figura deve coniugare intelligenza cognitiva ed emotiva. Sapersi mettere in gioco, conquistare la stima del proprio team, ammettere i propri errori quando sbaglia. E, pur facendosi carico delle situazioni difficili, saper individuare le occasioni in cui passare la palla e far giocare gli altri. Solo così la squadra cresce e crescono i collaboratori. Abbiamo bisogno di una leadership meritocratica e partecipativa, basata su credibilità e trasparenza e su una comunicazione autentica ed empatica. Leadership non deve significare potere, ma piuttosto responsabilità». ©