I trucchi del governo per raggiungere il 2% del Pil in spesa militare
Il governo rilancia sulla spesa militare al 2% del Pil. Ma come si raggiunge tale livello e quale è la cifra reale da mettere sul tavolo? L'articolo I trucchi del governo per raggiungere il 2% del Pil in spesa militare proviene da Valori.

Negli ultimi giorni diversi esponenti del governo (dal ministro dell’Economia al ministro della Difesa) hanno confermato l’intenzione da parte dell’esecutivo di raggiungere il tanto chiacchierato obiettivo del 2% del prodotto interno lordo (Pil) in spesa militare. Ne ha parlato anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni nell’incontro alla Casa Bianca con Donald Trump. Ma come si potrà raggiungere tale livello e quale sarà la cifra reale da mettere sul tavolo? Prima di analizzare i freddi numeri, occorrono due premesse.
Come nasce l’obiettivo del 2% del Pil in spesa militare
La prima riguarda l’obiettivo ormai preso a punto di riferimento. Che – va sempre ricordato – non è una semplice applicazione di una richiesta Nato già prevista e decisa in maniera definitiva. L’indicazione ai Paesi membri di dover raggiungere almeno il 2% del Pil in spesa militare fa capolino nel 2006 in un accordo informale dei ministri della Difesa. È stato ulteriormente rilanciato durante il vertice dei Capi di Stato e di governo del 2014 in Galles (obiettivo per il 2024) in cui si indicava anche una quota per investimenti del 20%. E poi ripetuto come un mantra negli ultimi anni per farlo passare come assodato e finalizzato. In realtà, dal punto di vista formale, si tratta di “Dichiarazioni di intenti” mai ratificate da alcun Parlamento con forza normativa e obbligo vincolante per il bilancio dello Stato (cosa per cui non basta l’approvazione di mozioni di indirizzo).
Inoltre l’obiettivo del 2% non è mai stato giustificato in termini militari. Collega inoltre una previsione di spesa pubblica a un parametro che non si può definire preventivamente (nessuno sa ancora quale sarà il Pil del 2025, ad esempio). Un parametro che, per giunta, è soggetto a fluttuazioni impreviste (si pensi al crollo inaspettato durante il Covid-19) e comprende nel suo conteggio anche la ricchezza privata. Insomma, è un parametro aleatorio che va oltre i fondi pubblici realmente a disposizione dello Stato (e dunque delle decisioni governative). Ed è per giunta scollegato da reali esigenze tecnico-militari. In poche parole, un artificio per poter aumentare la spesa militare “giustificandola” con un pre-giudizio intoccabile senza entrare nel merito delle motivazioni o necessità reali.
Quanto vale nel suo insieme la spesa militare italiana
La seconda premessa riguarda il valore complessivo della spesa militare italiana. L’Osservatorio Mil€x lo ricava da una metodologia in linea con gli standard internazionali e dalla possibilità di effettuare un’analisi dettagliata dei documenti della Legge di Bilancio. Con questo metodo, ha calcolato per il 2025 una spesa militare totale “diretta” di poco più di 32 miliardi di euro. Pari a un rapporto dell’1,42% sul Pil previsionale Nadef calcolato a fine anno scorso (ma comunque in discesa nelle successive previsioni). Il conteggio non considera le quote parte di progetti europei, che non rientrano nel calcolo dell’obiettivo Nato.
Abbiamo già sottolineato come le stime Mil€x siano state sempre storicamente allineate ai ricalcoli di spesa militare che il ministero della Difesa esegue, esplicitandoli nel Documento programmatico pluriennale per la difesa (Dpp), per organizzazioni come l’Ocse (200 milioni di differenza con Mil€x sul 2024) o istituti di ricerca come il Sipri (600 milioni di differenza con Mil€x sul 2024). Le nostre stime sono state sempre più conservative rispetto a quelle calcolate dal ministero anche con altre metodologie. Soprattutto in relazione al cosiddetto “bilancio in chiave Nato” che vede sempre cifre molto più alte. Per il dato 2024 la differenza con i nostri dati era di ben 3,8 miliardi in più.
Gli espedienti del governo per allinearsi all’obiettivo della spesa militare al 2% del Pil
Quello dell’utilizzo di una valutazione di spesa militare più “gonfiata” rispetto agli standard internazionali più accreditati è quindi uno degli espedienti con cui il governo italiano cerca di allinearsi all’obiettivo del 2%. Senza dover impegnare troppi fondi, che non ha. Incrociando i dati del ministero della Difesa sulla spesa attuale che sarebbe all’1,57% del Pil e quelli sul valore dello stesso Pil contenuto dal Documento di finanza pubblica 2025 (l’ex Def) appena pubblicato dal Mef (2.256,8 miliardi il Pil 2025) il bilancio difesa “in chiave Nato” – conteggiante anche i fondi Mimit per le armi, i fondi Mef per le missioni all’estero, le spese Inps per le pensioni, ma non i costi per i Carabinieri se non quelli disgregabili all’estero – quest’anno si aggirerebbe sui 35,4 miliardi. Ben più dei suddetti 32 miliardi stimati in base agli stanziamenti previsti nella Legge di bilancio 2025.
Partendo da questo livello di spesa, per raggiungere subito il 2% del Pil – ovvero 45,1 miliardi considerando il valore odierno dichiarato – si dovrebbe concretizzare un investimento aggiuntivo di almeno 9,7 miliardi. Un investimento enorme per le casse statali italiane. Infatti il Mef punta a tagliarlo di qualche miliardo presentando alla Nato una spesa militare che comprenda anche altre voci già a bilancio ma finora non considerate. Il secondo espediente, che ricorda l’aneddoto di certi carri armati spostati da una parte all’altra per far percepire un totale complessivo di armamenti maggiore del reale…
I tentativi di conteggiare le spese relative ad altri corpi militari
La valutazione aggiuntiva riguarda le spese relative ad altri corpi militari difficilmente compatibili con le linee guida dell’Alleanza su cosa sia e cosa non sia considerabile come spesa per la difesa. Non solo Carabinieri (costo totale: oltre 7 miliardi) ma anche Guardia Costiera a carico del ministero dei Trasporti (per oltre 3 miliardi) e Guardia di Finanza a carico del Mef (per quasi 1 miliardo).
Nei documenti Nato si legge che tali costi «possono anche includere reparti di altre forze (ma) solo in proporzione alle forze che sono addestrate secondo tattiche militari, equipaggiate come una forza militare, in grado di operare sotto autorità militare diretta durante operazioni schierate, e realisticamente impiegabili al di fuori del territorio nazionale a supporto di una forza militare».
Questo già accade per i Carabinieri. Attualmente la Difesa fornisce alla Nato solo il costo «della quota parte afferente al personale dell’Arma dei Carabinieri impiegabile presso i Teatri Operativi del Fuori Area (c.d. deployable), fissata in complessive 8.600 unità» su un totale di circa 110mila. L’ultima quantificazione di questa spesa è stata resa pubblica per il 2020 ed era pari a 543 milioni l’anno.
Se vorrà trovare fondi reali, il governo dovrà tagliare altre spese
Difficilmente la Nato accetterebbe di ricomprendere ulteriori spese relative ai Carabinieri, che solo in caso di guerra sul territorio italiano contribuirebbero davvero alla difesa nazionale. Per la stessa ragione sarà arduo ottenere dall’Alleanza atlantica il via libera al conteggio dei costi di 11mila guardiacoste e 64mila finanzieri tra le spese per la difesa. Due corpi di polizia – marittima e tributaria – che avrebbero un ruolo di contributo alla difesa territoriale e costiera ancora una volta solo in caso di conflitto conclamato.
Non è la prima volta che l’Italia avanza questa proposta in sede Nato, e finora è sempre stata rigettata. Se dunque il governo Meloni vorrà raggiungere i circa 45 miliardi di euro in spesa militare che metterebbero l’Italia in linea con gli obiettivi non vincolanti definiti in chiave Nato (e forse obsoleti, visto che già si parla di 3,5% o addirittura 5% sul Pil…), dovrà trovare fondi “reali” da mettere sul tavolo. Con il probabile taglio di altre voci di spesa nel bilancio dello Stato.
Mil€x è un progetto lanciato per realizzare un primo Rapporto annuale sulle spese militari italiane (pubblicato ad inizio 2017) che è servito come base per la creazione di un Osservatorio stabile sul tema.
L’Osservatorio è stato promosso da Enrico Piovesana e Francesco Vignarca con la collaborazione e la struttura operativa del Movimento Nonviolento (nell’ambito delle attività della Rete Italiana Pace e Disarmo).
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