Hermann Heller, giurista attuale della sovranità e della società

Se non un vero e proprio “ritorno a Weimar”, costituisce ancora oggi un passaggio obbligato nelle scienze giuridiche e politiche almeno una “lunga sosta meditativa” nei pressi di quel laboratorio […]

Mar 8, 2025 - 11:03
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Hermann Heller, giurista attuale della sovranità e della società

Se non un vero e proprio “ritorno a Weimar”, costituisce ancora oggi un passaggio obbligato nelle scienze giuridiche e politiche almeno una “lunga sosta meditativa” nei pressi di quel laboratorio eccezionale che è stata appunto la Repubblica di Weimar. Momento di autentica prolessi del Novecento, capace di anticipare nel primo ventennio del secolo quasi tutte le problematiche fondamentali che gli Stati costituzionali affronteranno compiutamente solo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. A partire dal testo giuridico della Costituzione tedesca scaturiscono, nella viva esperienza istituzionale, scritti dottrinali dal destino straordinario e ignaro: rivolti al presente ma orientati a produrre la loro prestazione teorica più pregnante nel futuro, nei decenni a venire. Caduto il testo, cancellato dalle intemperie della guerra e del totalitarismo, sono subito riemerse dalle acque della storia le riflessioni di una serie di autori di lingua tedesca che hanno condizionato tutto il dibattito giuridico del XX secolo. Tra queste voci spicca quella di Hermann Heller, che è al centro di un recente volume collettaneo curato da Ulderico Pomarici e Sara Lagi (Il popolo sovrano. Unità e conflitto nella teoria democratica di Hermann Heller, Editoriale Scientifica, Napoli, 2024).

Heller può essere considerato il “terzo uomo” della scienza giuridica weimariana, insieme ai duellanti da sponde opposte Kelsen e Schmitt. La sua biografia è forse quella più aderente alle vicissitudini della infelice Repubblica, militante socialdemocratico ha dovuto lasciare la Germania per spegnersi precocemente in esilio a Madrid, poco più che quarantenne: un percorso quindi incompiuto, persino tragico, ma anche assolutamente fecondo e destinato a lasciare tracce indelebili. La dottrina dello Stato di Heller è assolutamente centrale per comprendere anche la sua dottrina della costituzione. Qui matura appunto la terzietà della sua posizione rispetto al normativismo di Kelsen e al decisionismo di Schmitt. Lo Stato per Heller non è né finzione, come per Kelsen che riduce la statualità all’ordinamento giuridico, e nemmeno unità organica, come per lo Schmitt che esalta il popolo come presupposto esistenziale della comunità politica. Sia il formalismo che il decisionismo collocano l’elemento del popolo al di fuori dell’ordine giuridico, espellendolo il primo per neutralizzarlo e de-sostanziarlo nella rete delle norme, o, facendone un elemento identitario di origine dell’ordine il secondo. Secondo Pomarici, nel saggio introduttivo, Heller rifugge dalla visione hobbesiana che accomunerebbe il retroterra filosofico di Kelsen e Schmitt, in quanto, sia pure con esiti e approcci diversi, essi sono metodologicamente accomunati dall’idea che i soggetti producono l’ordine politico a partire da una sorta di tabula rasa, ex nihilo, da cui si dipanano da un lato la pura forma e dall’altro l’altrettanto pura decisione. La posizione terza di Heller non è però quella della mera mediazione, ma offre una prospettiva diversa. Tanto l’esistenzialismo di Schmitt che il formalismo di Kelsen operano una riduzione del diritto statuale. Kelsen lo assorbe dentro le singole norme, annullando il soggetto-Stato dentro l’ordinamento, mentre Schmitt lo considera un riflesso politico di una identità già data. Lo Stato per Heller è invece qualcosa di più spesso, un addensato nel quale stanno popolo, società, cultura, come azione umana organizzata. Ciò che Kelsen si sforza di tenere fuori con la riduzione formalistica della statualità, e che Schmitt annulla risolvendola nel conflitto politico, cioè la società, diventa per Heller il terreno d’elezione. «Heller guarda la realtà della società di massa ed è da questa e solo da questa che potrà emergere la forma di un nuovo Stato». (Pomarici, p. 54). L’obiettivo del raggiungimento dell’unità politica diventa allora un movimento, sia pure contraddittorio e instabile, tutto interno alla dinamica statuale, trasformando l’elemento materiale della società in fonte diretta di legittimazione e di legalità. La realtà sociale dello Stato pluriclasse, che sembra spaventare Kelsen e Schmitt sia pure per motivi opposti – l’uno riduce la pura democrazia al diritto di voto, l’altro vede le insidie per l’unità politica della frammentazione sociale – appare invece ad Heller il dato costitutivo dello Stato e della costituzione del Novecento.

In questo senso il popolo è davvero sovrano, non più nell’assolutezza mitologica russoviana o nell’individualismo hobbesiano. Tanto nei contributi di Gustavo Gozzi che di Sara Lagi si sottolinea il fatto che Heller postula la necessità di una volontà generale. Tale volontà generale è intesa in senso concreto ed empirico, come riflesso rappresentativo della sovranità del popolo (Gozzi, p. 108). La sovranità popolare è un punto fermo della dottrina della costituzione per Heller, che è disegnata, in coerenza con la propria metodologia giuridica materiale e sociale, in maniera del tutto autonoma da Kelsen e Schmitt. Nel rendere conto di questo passaggio, affrontato da più co-autori, emergono sottolineature che enfatizzano maggiormente la distanza dall’uno o dall’altro grande giurista. Per Gozzi, ad esempio, la critica di Heller a Kelsen non può essere più radicale, perché la teoria normativista della sovranità dissolve la soggettività politica, annullando il momento della espressione della volontà dietro un formalismo logico. Parimenti, anche secondo Augustìn José Menéndez, Heller non intende affatto rinunciare alla categoria democratica della volontà generale espressa dal soggetto popolo, ma la sua interpretazione della teoria del grande giurista tedesco muta di accento, «Perché Heller si oppone a Kelsen e, soprattutto a Schmitt» (José Menédez, p. 258). Più della dissoluzione formalistica della sovranità, qui si segnala che la dottrina schmittiana della sovranità, come fatto extra-giuridico che emerge nelle fasi di eccezione, è del tutto antitetica all’idea helleriana di una volontà soggettiva sovrana (del popolo) sempre espressa nei termini non dell’arbitrio ma della capacità rappresentativa del pluralismo. La sovranità di Heller ha bisogno di un soggetto, come in Schmitt e a differenza che in Kelsen; ma tale soggetto non opera nelle tempeste del conflitto politico, come in Schmitt, ma dentro un quadro pluralista dotato di un certo ordine normativo. In questo senso, allora, «La volontà generale può essere quindi considerata il primo presupposto dell’esistenza dello Stato democratico, secondo Heller» (Lagi, p. 134). Siamo ben lontani dalla mitologia russoviana del contratto sociale, la soggettività sociale di cui tratta Heller è quella delle classi sociali che stanno trasformando profondamente le strutture politiche e giuridiche dell’ormai desueto Stato liberale di diritto dell’Ottocento. La crisi dello Stato, denominata così da Santi Romano, indica il passaggio dallo Stato monoclasse della borghesia allo Stato pluriclasse del suffragio universale e dei grandi partiti di massa. La scienza giuridica tedesca è quella che produce la sistemazione teorica più efficace della nuova realtà sociale: il vecchio positivismo formalistico legato alla dottrina dello Stato-persona cade sotto la critica di nuovi approcci. Il contributo di Giovanni Bisogni riprende un passaggio chiave di questa trasformazione: il superamento operato da Heller (come da vari giuristi della stessa generazione) della distinzione tra legge formale e legge materiale fissata da Laband negli anni ’80 dell’Ottocento per difendere strenuamente le prerogative regie a scapito della rappresentanza politica parlamentare. Se per legge si deve intendere quel tipico atto deliberativo che deve possedere certi requisiti “materiali”, generalità e astrattezza in primis, allora è ininfluente l’autorità che lo pone: la materialità qui è solo un espediente del metodo giuridico “stretto” per svalutare la forza normativa della camera elettiva; anche il governo può fare leggi.

Heller, forse insieme a Smend, è tra i giuristi che più si sforza di inserire la società entro la nuova dottrina dello Stato costituzionale democratico. Come nota Claudia Atzeni, nella ricerca dell’essenza del politico e del giuridico «egli tiene sempre debitamente conto della “problematicità oggettiva della realtà sociale” (Heller)» (p. 215). Il popolo viene colto pertanto nella dimensione plurale dei vari interessi sociali, proponendo così quella unità nel pluralismo che per Heller è in definitiva la cifra ultima della democrazia contemporanea. La sovranità popolare tende a confluire nella società, e il popolo da unità organica o da fictio juris diventa invece soggetto attivo della dinamica costituzionale: Smend individuerà nell’integrazione il senso ultimo della dottrina della Costituzione, mentre Heller conserva un impianto più pluralista, centrato sulla vita politica dei grandi partiti di massa. Smend declina la dottrina dello Stato e della costituzione sul crinale delle scienze dello spirito, da cui trae i presupposti materiali (nel senso di meta-giuridici) del diritto; Heller resta dentro l’immanenza moderna, preferendo interpretare la dottrina dello Stato come una scienza sociale empirica (Gozzi, p. 111). Ecco allora che uno Stato così concepito non può essere indifferente ai valori e ai fini ultimi che l’azione pratica delle istituzioni intende perseguire. Il popolo diventa tramite di una precisa cultura e di una precisa formazione (Bildung), l’approccio empirico sociale si concentra sugli scopi e sui principi che innervano il corpo sociale. La società è la base materiale dello Stato, sia in senso economico che culturale, innervandosi in essa. É chiaramente d’obbligo il rimando alla dottrina della Costituzione materiale di Mortati, altrettanto attenta ai presupposti fattuali del diritto: anche se in Mortati la costituzione materiale non assume mai il valore empirico e sociologico che Heller assegna invece alla società civile, rimanendo il giuridico un terreno ben perimetrato. Manca l’operatività dialettica del sociale, la costituzione materiale è una sorta di dato strutturale, un principio logico più che un fattore di tensione istituzionale.

La verità è che in Heller, democrazia politica, Stato, costituzione, sovranità popolare, classi sociali, si intersecano, alternando oggettività strutturale e formale a soggettività assiologica e decisione. Ciò che era ben distinto nel formalismo neo-kantiano di Kelsen si ritrova qui combinato: essere e dover essere, natura e cultura, soggetto e oggetto, decisione e norma. Il punto di ricaduta filosofico della teoria gius-politica di Heller è colto da Geminello Preterossi, il quale riconnette direttamente il giurista di Weimar a Hegel, sottolineandone, appunto, il «lascito neohegeliano». Heller avrebbe ripreso la Filosofia del diritto di Hegel «aggiornandola alla società capitalista di massa, in qualche modo portandola oltre se stessa, per impostare il suo tentativo di saldare società, Stato, ethos pluralizzato» (Preterossi, p. 184). Conto le pretese di avalutatività delle scienze sociali, facili a convertirsi in maschere ideologiche, in Heller è rintracciabile una «metafisica politica» (p. 190) grazie ai contenuti che sono esplicitati nella sua dottrina dello Stato. La centralità della società rappresenta il serbatoio materiale – ma non in senso economicistico e materialistico, Heller non era marxista – da cui attinge il diritto costituzionale. Per Preterossi Heller è il vero e autentico teorico di Weimar capace di transitare la filosofia della storia dentro la filosofia giuridica: l’artificialità del diritto moderno secolarizzato non riposa sul nulla della forma o della decisione, ma riprende «una sedimentazione contenutistica, di senso, che nel tempo mobilita sempre di più l’ethos» (p. 200).

La figura di Heller è capace di sollevare ancora oggi questioni di grande attualità. Il saggio di Augustìn José Menéndez si spinge sino ad analizzare il diritto dell’Unione europea «attraverso gli occhi» di Heller, ricordando come, pur essendo il grande giurista scettico sulla Società delle Nazioni, sia invece possibile rinvenire nella sua dottrina della sovranità – in quanto dotata di un condizionamento normativo interno e non quindi intesa in senso ab-soluto – un elemento di apertura sovranazionale del costituzionalismo democratico e sociale. All’obiezione circa la distanza assiologica tra l’impianto neoliberale dei Trattati e i valori social-democratici delle costituzioni nazionali, esplicitata bene da Menéndez, questi prova a rispondere enfatizzando il carattere ambivalente del diritto primario europeo, un po’ sociale e un po’ rivolto al mercato. Heller, pertanto, può diventare un punto di riferimento per la capacità di illuminare il percorso costituzionale che «ha portato l’UE in rotta di collisione con gli Stati democratici e sociali» (p. 285). La pluralità materiale si proietta così anche nel quadro sovranazionale, mantenendo però ferma l’esigenza di bilanciamento con l’unità ordinamentale, la sola che può garantire contro rifeudalizzazione del potere temuta da Heller (e all’opera nel policentrismo tecnocratico della Ue). In maniera del tutto analoga a quanto avviene nella vicenda interna della sovranità statale e popolare.

Ma l’attualità di Heller non è solo relativa al diritto costituzionale. Heller giurista della materialità del sociale interroga anche lo statuto epistemologico ed etico del diritto contemporaneo. La connessione helleriana con la filosofia della storia, cioè con i contenuti di valore, culturali, spirituali, politici, ne ha fatto la fortuna rispetto ai modelli degli altri “due grandi” di Weimar, Kelsen e Schmitt. Può persino essere associato all’istituzionalismo di Santi Romano, ubi societas, ibi jus, rientrando nel terzo tipo di pensiero giuridico analizzato nel celebre scritto schmittiano. La sua attualità sta in questo, il diritto nuovo del mondo globale è infatti quanto mai schiacciato dalla forza normativa dei fatti sociali e della morale diffusa. La molteplicità sociale abbonda, scarseggia semmai l’unità ordinamentale. Il diritto costituzionale e statale è svuotato dall’esterno e dall’interno in nome di principi materiali che prescindono tanto dalla forma che dalla decisione politica. Preterossi osserva i rischi di tali passaggi. Se la norma dipende da valori materiali, occorre che qualcuno li interpreti: a questo ruolo sono ormai ascese le corti costituzionali in dialogo con quelle sovranazionali. Il ceto dei giuristi muove il costituzionalismo societario della tecno-finanza globale e delle rivendicazioni basate sugli astratti diritti dell’uomo. La materialità sociale si sta imponendo. Certo, non è quella del welfare democratico di Heller capace di contenere l’economia. Ma questo è il rischio di accompagnarsi alla storia.