Ecco come sono cambiati gli equilibri geopolitici nell’Europa dell’Est dopo 3 anni di guerra in Ucraina
Ci sono momenti in cui si ha l’impressione che il peso della storia stia sopraggiungendo con tutta la sua forza. Uno di quei momenti è stato il 24 febbraio 2022, quando il presidente russo Vladimir Putin dette inizio a quella che all’epoca chiamava «operazione militare speciale» in Ucraina. Un nuovo momento del genere potrebbe arrivare […]

Ci sono momenti in cui si ha l’impressione che il peso della storia stia sopraggiungendo con tutta la sua forza.
Uno di quei momenti è stato il 24 febbraio 2022, quando il presidente russo Vladimir Putin dette inizio a quella che all’epoca chiamava «operazione militare speciale» in Ucraina.
Un nuovo momento del genere potrebbe arrivare proprio in queste settimane, a tre anni dall’inizio del conflitto, con il presidente americano Donald Trump che ha aperto formalmente un canale di comunicazione pubblico con Putin per trattare una cessazione delle ostilità in Ucraina. Un negoziato che presenta tanti punti interrogativi: costruire le condizioni per una pace non è mai un compito semplice, soprattutto se questa pace vuole essere duratura, ma lo è ancora meno se a confrontarsi sono leader che si sono più d’una volta mostrati imprevedibili.
A rendere tutto ancora più complesso è il fatto che, almeno nel momento in cui scriviamo, al tavolo non è prevista la partecipazione né di Kiev né di alcuna rappresentanza della sponda europea della Nato, circostanza che ha sollevato non poche preoccupazioni.
Riassetto
Se l’inizio delle ostilità, tre anni fa, ha dato una spallata a un ordine globale estremamente fragile, ancora basato in gran parte sugli equilibri post-Seconda guerra mondiale e sugli sviluppi successivi alla caduta del Muro di Berlino, anche la possibile fine delle ostilità e le condizioni per decretarla e attuarla avranno importanti ripercussioni sugli equilibri internazionali. Soprattutto nell’Europa orientale, quel fianco Est dell’Alleanza Atlantica che si tocca col confine occidentale della Russia e dei suoi alleati e che ha visto il suo peso geopolitico crescere notevolmente in questi anni.
L’inizio della guerra e i timori dell’Europa, in modo particolare dei Paesi dell’Est, hanno infatti spostato il baricentro della Nato e dell’Unione europea verso oriente e verso il Baltico, ridisegnando molti equilibri geopolitici.
L’attacco russo all’Ucraina ha fatto cadere molti dei vincoli convenzionali in piedi dall’ordine post-bellico, portando la Finlandia e la Svezia a porre fine alla loro storica neutralità e ad aderire alla Nato, ma ha anche aumentato il sentimento atlantista di Paesi che hanno un tradizionale rapporto conflittuale con la Russia, come le repubbliche baltiche e, soprattutto, la Polonia.
È proprio Varsavia la guida di questa tendenza consolidata tra alcuni Paesi del fianco Est (non tutti, come vedremo). La Polonia è l’unico Stato che non si è fatto problemi ad alzare la percentuale del Pil stanziata nella difesa oltre il 4%, avvicinandosi al 5: in un momento in cui il settore militare è cruciale, i polacchi si sono così saputi ritagliare un ruolo particolarmente rilevante nello scacchiere dell’Ue e dell’Alleanza Atlantica.
Ma il Baltico e la Polonia non sono alla testa di questa corrente solo per i rapporti non proprio rosei con Mosca, bensì anche per il loro ruolo in prima linea nel fianco Est.
Nessuno vorrebbe mai vedere le relazioni tra Nato e Russia riscaldarsi al punto dallo sfociare in una guerra, ma la situazione sempre più tesa ha costretto l’Alleanza Atlantica a valutare con massima attenzione i punti più vulnerabili del proprio confine, constatando che il Baltico e la Polonia sarebbero tra le zone più calde.
È proprio al confine tra Polonia e Lituania che passa il corridoio di Suwalki, una striscia di pochi chilometri che separa la Bielorussia dall’exclave russa di Kaliningrad, il cui controllo isolerebbe le repubbliche baltiche, ed è proprio nel Mar Baltico che si trovano isole, stretti e passaggi fondamentali che potrebbero essere chiusi o forzati: è per questo che negli ultimi tre anni una delle priorità della Nato è stata il rafforzamento del fianco Est, prima che (ri)piombasse sulla scena l’incognita Trump.
L’incognita Trump
Le prime mosse del secondo mandato del tycoon alla Casa Bianca sono state, come al solito, spiazzanti. È vero, per l’intera campagna elettorale The Donald aveva parlato della volontà di chiudere, e di farlo in tempi molto rapidi, la guerra in Ucraina, ma i suoi primi passi hanno molto allarmato gli alleati europei.
La scelta di trattare direttamente con Putin, senza coinvolgere nessun Paese del Vecchio continente né Kiev, ha mostrato in modo chiaro il totale disinteresse da parte di Trump per questo pezzo di mondo e alimentato il timore che l’Europa debba iniziare a camminare, da un punto di vista militare, esclusivamente sulle proprie gambe senza più fare affidamento sulla numerosa presenza americana.
Certo, è difficile pensare che gli States lascino definitivamente la Nato o mettano in campo un ritiro completo del proprio contingente sparso in numerosi Paesi europei, ma mai come oggi l’Alleanza atlantica rischia di cambiare drasticamente il proprio volto. Una conseguenza ben chiara agli occhi del presidente francese Emmanuel Macron, che in questi tre anni ha cercato di ritagliare per l’Europa un ruolo autonomo, forte del suo ruolo di leader dell’unica potenza nucleare dell’Ue: è in quest’ottica che va inquadrata la sua affermazione del marzo 2024, da molti relegata a boutade, secondo cui la Francia sarebbe stata pronta a mandare militari in Ucraina se Mosca avesse superato alcune linee rosse, ed è sempre in quest’ottica che lo stesso Macron ha lanciato in questi giorni un vertice informale di alcuni Paesi europei per giocare un ruolo nella questione ucraina e non relegare tutto nelle mani di Trump e Putin.
Intanto, in attesa di incontri e vertici ufficiali, gli alti funzionari americani hanno gradualmente lasciato intendere quella che potrebbe essere la base per un cessate il fuoco: congelamento delle linee del fronte bellico, nessun ingresso di Kiev nella Nato, costituzione di un contingente militare a guardia del rispetto del cessate il fuoco al quale Washington preferirebbe non prendere parte. E la richiesta di Trump a Kiev di ripagare gli aiuti bellici ricevuti dagli Usa sotto forma di terre rare.
Nulla di scritto, solo notizie trapelate sulle basi di un’intesa tutta da discutere e che potrebbe trasformarsi in un trattato, prendere altre pieghe o naufragare totalmente: un fatto che non possiamo escludere, se prendiamo in considerazione la totale imprevedibilità che ha più volte caratterizzato l’azione di Trump e la difficoltà che può comportare una trattativa con Putin, il quale solo in parte ha chiarito le sue linee rosse legate all’Ucraina.
Da Budapest a Bucarest
Ma mentre si attende di capire quali saranno i prossimi sviluppi, la guerra, benché con meno intensità rispetto al passato, va avanti, con l’Ucraina che non sembra più in grado di prendere nuove iniziative decisive e cerca di contenere l’esercito russo che avanza in maniera lenta ma continua, senza prendere il controllo delle maggiori città ma conquistando gradualmente terreno nel Donbass e nella regione di Zaporizhzhia.
E così come si avverte che russi e ucraini sono stanchi di combattere, anche nella vecchia Europa l’opinione pubblica sembra sempre più fiaccata rispetto al conflitto e ciò che esso ha comportato per i singoli Paesi, a partire dalle conseguenze economiche legate all’aumento della spesa militare e al caro energia successivo alle sanzioni contro la Russia.
Questa situazione ha portato in tutta Europa alla crescita di movimenti politici di rottura rispetto ai partiti tradizionali. Anche a Est i cambiamenti si sono visti: non tutti sono allineati sulla posizione ultra-atlantista della Polonia e dei baltici.
Se l’ungherese Viktor Orban, premier dal 2010, è da sempre su posizioni di dialogo e apertura verso Mosca, a lui si è aggiunto nel 2023 lo slovacco Robert Fico, apertamente contrario al sostegno all’Ucraina, al punto di volare lo scorso dicembre in Russia per incontrare Putin.
Ma in questo momento l’ultimo osservato speciale è la Romania, andata al voto per le presidenziali lo scorso novembre: a sorpresa il centrodestra e i socialisti sono entrambi rimasti fuori dal ballottaggio, cui si sono qualificati il candidato indipendente conservatore, etichettato da molti come filo-russo, Calin Georgescu, e l’ultraeuropeista Elena Lasconi.
La vera sorpresa, che rappresenta un gesto clamoroso per un Paese dell’Unione europea, è arrivata però con la decisione da parte della Corte Costituzionale rumena di annullare l’esito elettorale per via della presunta interferenza di Stati esteri, con molti osservatori che hanno puntato il dito contro il possibile ruolo di Mosca: mentre si attende di sapere quando e come si ripeterà il voto e si attendono maggiori elementi che diano basi più solide a una decisione senza precedenti, nel Paese – che rappresenta un importante tassello del fianco Est della Nato – è in corso una grave crisi politica che ha portato tra le altre cose alle dimissioni del presidente Klaus Iohannis.
Da Tbilisi a Chişinău
A Est, però, non ci sono solo Paesi Nato, e Ue, ma anche altre realtà con un’opinione pubblica interna divisa tra le sirene euro-atlantiche e quelle filorusse, in cui Mosca talvolta mantiene anche un controllo tramite la presenza di repubbliche non riconosciute a livello internazionale.
Due esempi in materia sono la Moldavia e la Georgia, che da anni affrontano la convivenza con la Transnistria la prima e con l’Ossezia del Sud e l’Abcasia l’altra. Entrambi questi Paesi sono andati al voto nel corso dell’ultimo anno in elezioni combattute e controverse. Nel primo caso ha vinto – seppur con strettissimo margine per l’inserimento in costituzione del percorso di ingresso nella Ue – la presidente uscente, europeista, Maia Sandu.
Le cose sono andate diversamente, invece, in Georgia, dove a trionfare è stato il partito vicino a Mosca “Sogno Georgiano”, in elezioni fortemente contestate al punto da non essere riconosciute dall’opposizione che ha accusato il partito di governo di irregolarità elettorali.
Moldavia e Georgia sono due Paesi piccoli che hanno diverse analogie con l’Ucraina prebellica, entrambi posti lungo il limes tra la Nato e il mondo russo, e che per questo, in una fase storica come quella in corso, rischiano di scatenare un incendio anche da una sola scintilla.
Che ne sarà di Kiev?
Mentre si attendono gli sviluppi del dialogo appena ripreso tra Stati Uniti e Russia, l’Europa dunque cerca di trovare la sua consistenza e, forse per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, fa i conti con la concreta possibilità di dover trovare il modo di camminare da sola o almeno con un sostegno più distaccato da Oltreoceano.
Ma in tutto questo c’è l’Ucraina, che se abbandonata in sede di negoziato, rischia di vedere molte proprie aspettative frustrate: se ormai ha fatto i conti con l’impossibilità di ritornare ai confini precedenti al 2014 e anche quelli precedenti al 24 febbraio 2022, lasciarla abbandonata al suo destino da parte dell’Occidente senza alcuna forma di integrazione – che non deve essere per forza una difficile adesione alla Nato o un ingresso nell’Ue, per cui è difficile immaginare abbia i requisiti – rischierebbe di creare uno stato frustrato e ben armato nel cuore del Vecchio continente, con tutte le conseguenze del caso. Un rischio messo in luce in una delle sue ultime dichiarazioni da Henry Kissinger, già teorico nel 2014 di una “finlandizzazione” dell’Ucraina che, tuttavia, lo scoppio della guerra ha reso impossibile.