Duetti #22 – Velimir Chlebnikov e Aldo Nove: la poesia che si inabissa
Strana puntata dei miei Duetti, questa. Intanto perché accomuna due autori separati da più di un secolo di distanza e che stilisticamente hanno poco in comune, come il cubo-futurista russo Velimir Chlebnikov e Aldo Nove, autore italiano contemporaneo, e poi perché almeno uno dei due libri di cui vi parlerò non è un libro di […] L'articolo Duetti #22 – Velimir Chlebnikov e Aldo Nove: la poesia che si inabissa proviene da Il Fatto Quotidiano.

Strana puntata dei miei Duetti, questa. Intanto perché accomuna due autori separati da più di un secolo di distanza e che stilisticamente hanno poco in comune, come il cubo-futurista russo Velimir Chlebnikov e Aldo Nove, autore italiano contemporaneo, e poi perché almeno uno dei due libri di cui vi parlerò non è un libro di poesia, ma un libro sulla poesia, con la poesia, tra la poesia.
Ma iniziamo con ordine e presto sarà chiaro, spero, perché questi due libri vanno uno sotto braccio dell’altro.
Einaudi riedita nella sua Bianca le Poesie di Chlebnikov, nella storica versione tradotta e introdotta da Angelo Maria Ripellino con la cura rinnovata di Alessandro Niero e Riccardo Mini e con l’aggiunta dei testi a fronte che mancavano nell’edizione originale. Un’operazione complessa e stimolante questa di Niero e Mini che tratta, e sono d’accordo, l’edizione originale come un tutt’uno in cui i profili del curatore e dell’autore quasi si fondono.
Per quanto datata, la traduzione ripelliniana continua a scintillare di luce propria, dando una forza indimenticabile ai versi e alle sonorità dell’inventore dello Zaum, il linguaggio delle stelle, degli dei e degli uccelli, sovraumano, oltreumano, cosmico. Tutta la sua opera è un vagabondare ininterrotto lungo le strade di una Russia e di un Oriente travolti dalle Rivoluzioni e dalle guerre, lungo il quale Chlebnikov- Zangesi a volte abbandona la traccia di qualche testo, conservato e tramandato dai suoi amici cubo-futuristi, mentre lui di certo non si ferma a controllarne le bozze. Ha già intrapreso un nuovo viaggio, sta già componendo una nuova poesia. Ciò che è importante è non fermarsi mai, perché questo è la poesia: un continuo andare, ininterrotto, come lo scorrere della vita, il suo ritmico respiro.
Aldo Nove con Inabissarsi (Il Saggiatore ed.) torna alla poesia due anni dopo Sonetti del giorno di quarzo (Einaudi ed). Non si tratta di una nuova raccolta di poesie, questa volta, ma di quello che potremmo chiamare una sorta di Künstlerroman o, in inglese, Artist’s Novel, qualcosa – per intenderci – come il Ritratto dell’autore come giovane uomo di Joyce, che poi si muterà in Dedalus, o quello quasi omonimo di Dylan Thomas, che al giovane uomo preferirà nel titolo un giovane cane.
Così per Nove spiegare cosa sia e cosa significhi per lui la poesia è un riandare a un viaggio intrapreso sin dall’infanzia, in cui sempre più la poesia diventa determinante, necessaria, irrinunciabile. Ma non perché essa possa costituire una via di uscita, o di salvezza dall’aspro e dal tragico dell’esistenza, anzi proprio il contrario: decidere di porre la poesia al centro della propria vita, farne, in qualche modo, la propria vita è piuttosto – come dice il bellissimo titolo – un inabissarsi.
Nel suo personale apprendistato possono trovare posto, poi, autori molti diversi, apparentemente inconciliabili: Milo De Angelis, ma anche Nanni Balestrini, Franco Buffoni che gli fa da Virgilio nel suo ingresso nella Selva dei versi, e Alda Merini, ma anche Giampiero Neri, Elio Pagliarani tanto quanto Zanzotto e Calogero, appena dopo Fortini e Lora Totino. E questo solo per citare alcuni dei ‘contemporanei’.
Se Nove può riunire nel suo memoriale (ed amare) autori così diversi e apparentemente incompatibili è poi perché anche per lui, come mi capita di dire spesso, la poesia è nata prima dei poeti, perché è sempre la sua voce quella che ascoltiamo quando ascoltiamo un poeta, mai il contrario: mai ad alcun poeta sarà dato di cantare con la sua voce, solo di tentare di accordare la propria a quella che sente dentro e, nei casi più fortunati, confonderla, fonderla con essa, anche solo per un istante.
In entrambi, quindi, tanto nel postmoderno (e post-umano) Nove, che vive ormai nell’epoca in cui il linguaggio sembra essersi staccato definitivamente dal suo locutore, quanto per il cubo-futurista russo, che mescola avanguardia, misticismo e simbolismo, che fa coincidere il linguaggio con il suo corpo vagabondo e che tratta le parole come fossero uccelli o belve da ammaestrare, il linguaggio si fa ossigeno: la poesia è respiro e non solo in senso metaforico.
La poesia, come direbbe Bifo, non a caso ricordato da Nove, è ciò che dà eleganza al caos; se ancora esiste una qualsiasi verità, soltanto la poesia potrà essere in grado di scovarla, perché infine, persino la verità, per noi umani, ha a che fare con quel brodo linguistico immersi nel quale si svolge tutta la nostra vita e cerca senso persino la nostra morte; per noi è anch’essa, in qualche modo, una ‘convenzione linguistica’ e soltanto la poesia potrà ridare nome a quel nostro sogno che, come ci ricorda Mark Fisher, ormai non l’ha più.
Per entrambi, dunque, la poesia è, letteralmente, un cammino sui piedi dei versi, fino sull’orlo dello strapiombo e anche oltre: vagare nella vita in sua compagnia non concede sconti, né comodità, è una scelta totale nella quale persino i versi (probabilmente bellissimi) scritti e ficcati nelle federe dal russo e poi usati per accendere un fuoco e riscaldarsi lungo la strada che lo portava in Persia, valgono meno, molto meno della ricerca continua di quest’Angelica sempre sfuggente e che mai nessuno potrà possedere in maniera esclusiva. Nessun libro potrà mai contenerla, nessun libro potrà mai stabilirne il significato una volta e per sempre, nessuna vita potrà esaurirla in sé. Forse è per questo che i poeti, in qualche modo che solo loro conoscono, non muoiono mai ed è, oggi e qui, così evidente che Chlebnikov e Nove sono assolutamente ‘contemporanei’.
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