Di Silvio, SIRIP: «Le quote rosa? Non servono. Bisogna applicare la meritocrazia fino in fondo»

Al ritmo attuale si arriverà alla piena parità di genere nel 2158, ben oltre gli obiettivi stabiliti dall’Agenda 2030 dell’ONU. Ai primi posti del Global Gender Gap Report 2024 del World Economic Forum si trovano Islanda, Finlandia e Norvegia. L’Italia è all’87esimo posto, in calo rispetto al 79esimo dell’anno precedente, scendendo di ben 24 posizioni […] L'articolo Di Silvio, SIRIP: «Le quote rosa? Non servono. Bisogna applicare la meritocrazia fino in fondo» proviene da ilBollettino.

Apr 14, 2025 - 23:51
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Di Silvio, SIRIP: «Le quote rosa? Non servono. Bisogna applicare la meritocrazia fino in fondo»

Al ritmo attuale si arriverà alla piena parità di genere nel 2158, ben oltre gli obiettivi stabiliti dall’Agenda 2030 dell’ONU. Ai primi posti del Global Gender Gap Report 2024 del World Economic Forum si trovano Islanda, Finlandia e Norvegia. L’Italia è all’87esimo posto, in calo rispetto al 79esimo dell’anno precedente, scendendo di ben 24 posizioni in soli due anni. E se sono in aumento le donne presenti nei consigli di amministrazione (attualmente al 42% di presenze femminili) è «solo grazie a specifici interventi legislativi più che a un sentito cambiamento culturale. Ci sono settori ancora a completa guida maschile. Uno di questi è l’ambito legislativo: le deputate rappresentano il 36% del totale dell’emiciclo» dice Cristina Di Silvio, esponente del Sindacato dei Rappresentanti di Interessi Parlamentari (SIRIP) presso Camera e Parlamento europei. 

Si considera favorevole alle quote rosa?

«Con franchezza, dico che non sono molto propensa riguardo alle quote rosa. Credo che l’unico metodo corretto da seguire sia sempre e solo quello della meritocrazia, anche se evidentemente non basta».

Vanno quindi mantenute, come sostengono alcuni, oppure è il solo merito che deve portare alla conquista di una posizione?

«Mi rifaccio a un concetto espresso da Fiorella Kostoris, economista, Professoressa al Collegio d’Europa di Bruges e membro dell’ANVUR. Se si riuscisse a imporre la meritocrazia non ci sarebbe bisogno di alcuna quota perché la struttura e la distribuzione dei talenti nella popolazione femminile è uguale a quella della popolazione maschile. Se la meritocrazia in Italia ci fosse e fosse piena, allora non avremmo bisogno di quote, perché si arriverebbe naturalmente – per ragioni di efficienza oltreché di equità – al 50% di donne e al 50% di uomini in tutte le posizioni lavorative, consigli di amministrazione delle società quotate inclusi. Le informazioni neuroscientifiche attuali ci dicono che la distribuzione dei meriti nelle popolazioni maschili e femminili è sostanzialmente uguale».

Dunque?

«Per quanto mi riguarda, più che nelle quote ho sempre creduto nella “discriminazione positiva” che significa che tu sei libero di scegliere, ma io ti controllo; e se tu sistematicamente promuovi uomini, anziché donne, te ne chiedo conto».

Si dice sempre che dietro ci siano questioni culturali…

«Lo penso anche io. Nel 2018, il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Düsseldorf ha condotto un’interessante ricerca valutando l’opinione di 1.529 studenti tedeschi sulla capacità di leadership femminile, chiedendo loro di rispondere prima in modo esplicito e successivamente attraverso un questionario anonimo. I dati finali hanno dimostrato una significativa discrepanza tra voto “pubblico” e “privato”. Se interpellato apertamente, solo il 23% del campione mostrava di nutrire scetticismo sulla capacità di leadership femminile».

In anonimato, invece?

«Viceversa, la percentuale cresceva fino al 37%, con un picco massimo tra gli uomini (45%). È evidente, dunque, che esistono dei bias, quindi tendenze, pregiudizi spesso inconsci, che inducono a pensare che una donna sia meno adatta a ricoprire il ruolo di leader».

È ciò che poi porta alle difficoltà a sfondare il famoso tetto di cristallo?

«Nel nostro Paese, in particolare, all’identità femminile vengono ancora associati con grande frequenza tratti caratteriali quali l’emotività, la gentilezza, la devozione, la mancanza di qualità decisionali, lo spirito remissivo. Le donne vengono ancora viste come predisposte per lavori basati sul supporto emotivo e per la cura dell’altro, che sono tendenzialmente meno retribuiti. Queste caratteristiche sono opposte a quelle associate al genere maschile: il dinamismo, l’aggressività, lo spirito competitivo, l’indipendenza e la sicurezza di sé, di solito associate a posizioni lavorative ai vertici delle organizzazioni e con un più alto livello di retribuzione».

È capitato anche a lei di essere vittima di pregiudizi?

«Nel settore della finanza e dei rapporti internazionali, che sono quelli di mia competenza, essere preparate, capaci e sicure di sé può diventare un impedimento, perché nella mentalità comune spesso la donna non gode della stessa stima di cui beneficiano i professionisti di sesso maschile. Sembra incredibile, eppure è così».

La questione è anche educativa, quindi?

«Si deve lavorare assiduamente per eliminare queste barriere di arretratezza culturale che impediscono alle donne di raggiungere la parità di opportunità e di crescita professionale. Si deve investire in programmi di formazione e sviluppo delle competenze che tendano a favorire l’inclusione. Promuovere la diversità: questo deve essere l’obiettivo comune volto a infrangere nel più breve tempo possibile il famigerato tetto di cristallo».

Riguardo al gender pay gap, qual è la situazione attuale?

«In Europa le donne guadagnano il 16% in media in meno rispetto agli uomini, anche se i vari Paesi presentano differenze significative. Lo ha ricordato la Commissione Europea in un’informativa relativa alla strategia per la parità di genere 2020-2025: finora nessun Paese membro ha conseguito la parità piena. I miglioramenti sono molto lenti, i processi decisionali arrancano e i divari di genere perdurano nel mondo del lavoro, a livello salariale e nella rappresentanza politica».

Cosa serve per bilanciare le cose anche su questi fronti?

«Qualcosa si sta già facendo. La strategia dell’UE per la parità di genere si articola in obiettivi specifici volti a ottenere riscontri concreti entro il 2025. I principali sono: eliminare la violenza di genere, contrastare i preconcetti sessisti, eliminare le disparità nel mondo del lavoro, ottenere una piena partecipazione delle donne nei diversi ambiti economici, gestire la questione del dislivello retributivo e pensionistico, raggiungere un equilibrio di genere in politica e nei processi decisionali. Il 4 marzo 2022 la Commissione ha approvato misure vincolanti in ambito di trasparenza salariale. Anche in Italia, l’azione legislativa si sta concentrando sul mondo del lavoro, con interventi volti a equiparare i diritti e a offrire più tutele alle lavoratrici».

Nella conciliazione vita-lavoro, la maternità resta il principale freno?

«È un tema che si scontra con un’organizzazione del lavoro ancora troppo rigida, non improntata a un’ottica di genere, con scarsa cultura della condivisione dei compiti all’interno della famiglia. Abbiamo un contesto sociale che non riesce a promuovere la conciliazione né a declinare un welfare sussidiario. Inutile nascondere che la maternità continua a essere il principale motivo di abbandono del lavoro da parte delle donne, il fattore primario che determina lo scivolamento verso l’inattività o il sommerso femminile e la principale fonte di discriminazione sui luoghi di lavoro».

Quali politiche andrebbero messe in atto per contrastare questo fenomeno?

«È importante fare rete sul territorio tra soggetti diversi per affrontare un tema che non riguarda solo le donne e gli uomini che lavorano, ma è una vera e propria questione di rilevanza sociale. Va costruito un Mercato del lavoro sano e non segregante. Ne conseguirà una migliore qualità della vita per tutti».

L’equità è alla base nella partecipazione di uomini e donne al Mercato del lavoro…

«È una delle priorità sancite a livello nazionale ed europeo, ma a oggi rappresenta un obiettivo mancato. La Strategia europea di Lisbona impone agli Stati membri di raggiungere il 60% dell’occupazione femminile, ma la situazione italiana, con un tasso di occupazione che supera di poco il 45%, fa capire come persistano di stereotipi di genere e prassi discriminatorie».

Uno degli obiettivi del SIRIP è la promozione di politiche di equità e sostenibilità nel Mondo del lavoro. Quali azioni concrete state mettendo in campo?

«Il SIRIP è il sindacato dei Rappresentanti d’interessi. Con il loro tramite si possono apportare conoscenze e competenze specifiche in ambiti economici, sociali, ambientali e scientifici. L’obiettivo prefissato non è solo di individuare i problemi, ma di trovare soluzioni concrete ed applicabili. Tra questi c’è eliminare la violenza di genere in tutte le sue espressioni e in qualunque ambito, ritenendo di sostanziale importanza la piena partecipazione delle donne nei diversi comparti economici, professionali, politici e nei processi decisionali».

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