“Brevità dell’amore”, una poesia di Franco Arminio (2017)
Lavoro come un fabbro fino a tarda sera per dare al nostro amore un cancello, una ringhiera. I poeti – sosteneva Percy B. Shelley nel suo scritto La difesa della poesia (1821) – «scandagliano le profondità dell’anima umana con uno spirito tutto comprensivo e penetrante e son forse essi stessi i più sinceramente attoniti delle […] The post “Brevità dell’amore”, una poesia di Franco Arminio (2017) appeared first on L'INDIPENDENTE.

Lavoro come un fabbro
fino a tarda sera
per dare al nostro amore
un cancello, una ringhiera.
I poeti – sosteneva Percy B. Shelley nel suo scritto La difesa della poesia (1821) – «scandagliano le profondità dell’anima umana con uno spirito tutto comprensivo e penetrante e son forse essi stessi i più sinceramente attoniti delle sue manifestazioni, come di quello che non è tanto spirito loro quanto spirito del loro tempo… I poeti sono gli specchi delle ombre gigantesche che il futuro proietta sopra il presente; le parole che esprimono ciò che non intendono; le trombe che squillano a battaglia e non sentono ciò che ispirano; l’influsso che non è commosso ma commuove. Sono i non riconosciuti legislatori del mondo».
Senti davvero i respiri del vento, i mormorii delle voci degli anziani, le voci del «desiderio che squarcia i polsi», come lui scrive, nelle poesie che Franco Arminio ha raccolto in Cedi la strada agli alberi (Chiare lettere/Garzanti 2023) e provi la sensazione che non ci sia un poeta ma che le poesie abbiano usato lui e lo stiano usando per venire allo scoperto. Esattamente come canta in una sua composizione: «Noi non siamo qui per vivere/ma perché qualcuno/deve parlarci».
Arminio in sostanza raccoglie testimonianze, sembra un Ulisse sbarcato sulle coste lucane, che precipita ammaliato tra le braccia di una maga che parla sotto un albero, in un’intensità, per usare ancora le sue parole, che proviene più dalle voci che dai corpi, più dal contatto mitico con agenti naturali, con scorci di paesaggio, con la calma della nuvola che con qualsiasi fragore.
Qui ci troviamo di fronte, direi scherzando, a un haiku lucano, una sintesi immaginifica e un po’ ermetica che incrocia Quasimodo e Rocco Scotellaro, il Rocco di quell’altra “ringhiera” del 1951: «S’alzano i gridi ringhiera ringhiera:/ Giustizia nera, Giustizia nera»…Il Rocco di «Tu non ci fai dormire/ cuculo disperato» (1947).
Gli squarci pittorici e plastici della natura Arminio li attraversa con una mente allenata a trasfigurare, a prenderli non come uno spettacolo ma come un mistero, come quell’uomo, quella donna e quel mulo «che vanno lenti verso la campagna/ a scorticare la terra/ con la zappa per piantarvi un seme».
Dell’haiku in questi quattro versi c’è l’incanto sorprendente ma questa volta l’haiku esprime una metafora (estranea del tutto ai componimenti giapponesi): la metafora del fabbro, una metafora perduta, arcaica, non soltanto terrena ma ctonia, remota per profondità non per lontananza, quella che faceva dire in antico che ognuno è fabbro della sua fortuna, quella che faceva forgiare a un dio forme e foggie vulcaniche.
Se la fantasia è vulcanica, scrivere poesia è prendere una zappa e rovesciare la terra, estrarre una zolla come un verbo, come un’immagine, come un pianto o come una dichiarazione d’amore.
Sottrarre l’humus alla sua prigione, rendere alleati il vento e il seme. Fare poesia è anche ridare un’eco alla siepe leopardiana e farla diventare un cancello, una ringhiera che tuttavia nessuno sguardo escluda.
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