Alcune riflessioni sui tratti comuni delle destre neoliberali occidentali
Introduzione Anche all’occhio di un osservatore poco attento, è piuttosto evidente che tra Donald Trump, Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Marine Le Pen, Santiago Abascal, Geert Wielders e per certi versi […]

Introduzione
Anche all’occhio di un osservatore poco attento, è piuttosto evidente che tra Donald Trump, Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Marine Le Pen, Santiago Abascal, Geert Wielders e per certi versi anche Viktor Orbán esistano importanti parallelismi che vanno oltre gli omaggi reciproci che questi leader sono soliti scambiarsi. È evidente che questi movimenti politici convergano in un atteggiamento di insofferenza nei confronti della social-democrazia liberale – presentandosi spesso come un rimedio ai suoi fallimenti e alle sue disfunzioni –, in una generale intolleranza verso lo stato di diritto e soprattutto in una certa disponibilità a convivere se non addirittura ad alimentare di nuova linfa il sistema economico dominante nel mondo di oggi[1]. Ma, prima di ragionare su questi fenomeni più evidenti, è opportuno spostarsi a monte e chiedersi se nelle modalità di ascesa al potere, nei metodi di gestione del potere e nelle strutture intellettuali che animano i progetti politici di queste destre esistano dei tratti essenziali simili.
Prima di procedere all’analisi, è necessario dare conto di alcune premesse al fine di delineare il senso di un’analisi di questo tipo e di dichiarare, sin da subito, la sua inevitabile non esaustività.
La prima premessa riguarda la modalità con cui si cercano matrici comuni. Individuare matrici comuni non implica assimilare fenomeni che, per tempi, spazi e contesti, risultano profondamente differenti. La destra americana di Donald Trump rappresenta un’emanazione – o, forse, più precisamente una scissione incompiuta – del Partito Repubblicano, il che la distingue nettamente dalle destre europee sotto diversi aspetti, tra i quali sicuramente la storia, la visione economica e la politica estera. Il partito repubblicano americano è stato a lungo espressione di una parte considerevole dell’establishment di una superpotenza. Una superpotenza che aveva vinto una guerra senza combatterla e che per trent’anni ha dominato lo scenario internazionale. Al contrario, i leader dell’attuale destra neoliberale in Europa hanno avuto rapporti discontinui o marginali con le famiglie dei partiti della destra tradizionale nei rispettivi paesi e non hanno goduto di un simile una proiezione di potenza internazionale. Molti di questi leader non sono certo estranei ai rispettivi establishment nazionali, ma il loro ruolo si è limitato, nella maggior parte dei casi, alla mera amministrazione di potere. Un potere caratterizzato da una scarsa proiezione politica, da narrazioni antisistema, e da una forte tendenza al richiamo nostalgico del passato novecentesco. Un’eccezione può essere rappresentata dalla destra ungherese e da quella polacca, le quali, grazie a una storia politica più recente e dinamica sospinta dall’anticomunismo, appaiono animate da una maggiore energia. Tuttavia, nel complesso, le destre europee si caratterizzano per un orientamento nostalgico, il che le distingue nettamente dall’esperienza statunitense e suggerisce la necessità di individuare con attenzione eventuali parallelismi. Dunque, qui si prova ad essenzializzare, a trovare linee parallele che corrono all’interno di fenomeni diversi. In un dibattito pubblico inquinato da conformismi linguistici che servono solo spiegazioni facili e tendono a intorbidire la spiegazione più che a chiarirla, è opportuno cercare di andare alla radice dei problemi con rigore concettuale. Si cerca quindi di ricorrere ad una concettualità che permetta di uscire dalle spirali presentiste del lessico mainstream che impongono, con concetti svuotati e polemici come “sovranismo”, “populismo”, “fascismo”, ragionamenti circolari. Per questo, l’aggettivo “occidentali” – impiegato nel titolo con la consapevolezza che esistano più occidenti e, probabilmente, non ne esista affatto uno – è utile per circoscrivere questi fenomeni a quello spazio che si autorappresenta, in modo polemico e appositamente acritico, come blocco identitario-economico chiuso, accomunato da una congerie di valori definiti solo per opposizione.
La seconda premessa riguarda l’aggettivo “neoliberale”, accanto a “destre” e “occidentali” nel titolo. Quello di “neoliberismo” è un concetto da utilizzare con cautela, poiché scivoloso per via dei molteplici significati che esso trattiene e della forte carica polemica che lo contraddistingue. In questo caso, la semantica che gli si vuole attribuire si limita al carattere economico, individualista e aziendalista delle destre attuali, carattere che risponde proprio ad alcuni degli assunti del più ampio progetto economico-intellettuale del neoliberismo[2]. Certamente, destra radicale e neoliberismo possono sembrare ossimorici se accostati in modo assoluto, ma è proprio lo scopo di questa riflessione evidenziare la povertà intellettuale delle destre attuali costrette a legarsi a schemi di pensiero consolidati e incapaci di costruire immaginari alternativi. In questo senso, neoliberale vuole anche enfatizzare l’incapacità e la mancanza di volontà da parte di queste destre di incidere sui presupposti dell’attuale sistema economico. Al tempo stesso, e non secondariamente, utilizzando l’aggettivo “neoliberale”, qui si vuole mettere l’accento sulla grande duttilità del neoliberismo come ideologia e mettere in guardia circa le trasformazioni, le torsioni e i potenziali adattamenti di questo progetto economico-intellettuale[3].
Un conservatorismo opportunista e a-storico
Il primo degli elementi che accomunano queste destre è una forma opportunista di conservatorismo, caratterizzata da un’impostazione pragmatica più che ideologica. Se le destre tradizionali si fondano su valori storicamente definiti, come per esempio la difesa della famiglia in quella cattolica o della stratificazione sociale in quelle riformate, queste nuove destre mostrano un conservatorismo più vago e strumentale, privo di un ancoraggio storico solido. Tale conservatorismo è, infatti, definibile a-storico, in quanto non si fonda su un riferimento coerente al passato e su una lettura analitica e razionale del passato, ma si alimenta di richiami selettivi, nostalgici e mitizzati di epoche diverse e discrete tra loro. Per Fdi, per esempio, il continuo richiamo al concetto di “patria” esprime proprio questa tendenza. Un concetto fluttuante, indefinito e ambiguo dal punto di vista storico quello di “patria”, nel quale retoricamente è possibile far confluire di tutto: dal risorgimento all’Impero romano, passando per Risorgimento e futurismo arrivando fino al triviale made in italy. Tuttavia, quando la storia si presenta con le sue contraddizioni e con le sue opacità – pensiamo per esempio alle ricorrenze celebrative di alcuni passaggi del Novecento o al ritorno di fenomeni complessi, come la guerra fra stati –, questo conservatorismo a-storico e selettivo può persino trasformarsi in antistorico e aggressivamente revisionista. Lo abbiamo visto nei diversi casi in cui per esempio Fdi ha faticato a ragionare sulle contraddizioni tra fascismo e nazionalismo, arrivando a negare o riscrivere eventi storici a seconda delle necessità politiche del momento e tentando di leggere il passato solo con semplici opposizioni come buoni-cattivi, italiani-stranieri, ecc. (opposizioni, appunto, antistoriche)[4]. Oppure, un atteggiamento antistorico e revisionista, lo si può vedere nitidamente, in casi come quello del deputato di Vox che nel 2024 ha definito in parlamento il franchismo “una tappa verso il progresso”[5] o nell’ironia di Donald Trump circa la veridicità del genocidio subito dai nativi americani[6]. Conservatorismo, dunque, molto diverso da quello cattolico o da quello controrivoluzionario che, come nota puntualmente Carlo Galli, guardava al passato con una lettura che, seppur ideologica e dogmatica, si strutturava in modo coerente e razionale[7]. Al contrario, il nuovo conservatorismo selettivo e astorico delle destre neoliberali produce un atteggiamento paradossale: da un lato, viene propugnato un ritorno a una società che, di fatto, non è mai esistita (quella degli “americans first”, degli “italiani veri”, o dei “patriotas”, o l’ormai famoso ritornello secondo cui “quando i boschi erano curati e non c’era l’ambientalismo non vi erano alluvioni”[8]); dall’altro, nella pratica, finisce per difendere lo status quo e proporlo come il migliore dei mondi possibili, frustrando ogni possibile immaginario politico alternativo. Questo è uno dei motivi principali per cui queste destre sembrano essere interlocutori rassicuranti per gli attori economici e finanziari che nello status quo non intravedono problemi strutturali, quanto piuttosto floride possibilità di espansione.
Il primato del particolarismo sull’universalismo
Il secondo tratto distintivo è lo schema intellettuale secondo cui i particolarismi precedono, gerarchicamente, ogni possibile universalismo. Slogan come “America First”, “prima i lombardi”, o “orgoglio italiano” incarnano una visione politica che contrappone l’interesse nazionale o locale a principi più ampi come l’equità e la giustizia. Questo fa parte, appunto, di un continuo appello a particolarismi contro gli universalismi come schema intellettuale per modellare la realtà politica. Questo schema intellettuale è diventato per le destre neoliberali la bussola per orientarsi in ogni potenziale conflitto politico, dando a chi lo adotta l’impressione di un’apparente coerenza. In realtà questo schema intellettuale produce paradossi continui – si pensi a quanto paradossale è stata la trasformazione “nazionale” della Lega di Salvini o quanto paradossali siano i richiami all’Occidente di Meloni. Non vi è valore universale, che non possa essere scardinato, all’occorrenza, da un valore particolare più importante. Non vi è giustizia, non vi è pace, non vi è sicurezza, che non possa essere messa in secondo piano da un valore contingente più importante come il cosiddetto “interesse nazionale” che vale più dei diritti umani e della giustizia internazionale. Questo vale negli affari di politica interna, in cui l’unità del partito conta molto di più della correttezza istituzionale, quanto nelle valutazioni di politica estera, in cui il cosiddetto interesse nazionale vale di più della vita di migliaia di persone. Certamente, oltre a produrre incoerenze, discriminazioni e contraddizioni, questo schema intellettuale produce faglie di conflitto e nutre sensazioni di assedio continuo. Lo schema del particolarismo non serve solo ad orientare i valori, ma serve anche come lettura delle dinamiche della realtà politica. È qui che emerge anche l’altra faccia del particolarismo, ossia la lettura estremamente individualista dei processi politici di questa destra neoliberale, una lettura che esclude la dimensione sociale e strutturale dei fenomeni della politica, attribuendo all’individuo – un fantomatico individuo libero e assoluto – agenzia diretta e responsabilità in ogni dinamica politica, dalla micro-dinamica alle macro-dinamiche. Dall’immigrazione, in cui l’immigrato è responsabile dell’atto di spostarsi in prima persona venendo identificato come criminale, alla decisione politica fallimentare in cui l’avversario è responsabile direttamente come individuo fino al rapporto fra esecutivo e giudiziario in cui il ministro è rappresentato come un perseguitato in quanto individuo.
L’insofferenza per le mediazioni e il leaderismo decisionista
Il particolarismo si traduce in un terzo elemento: la diffidenza verso ogni forma di mediazione istituzionale, infatti, come si diceva poco sopra, particolare è anche sinonimo di singolare, individuale; ne è l’altra faccia. E il tratto individualista è un tratto evidente di queste destre neoliberali, nelle quali l’esistenza di una figura che possa incarnare e rappresentare l’insieme della collettività è centrale. Dunque, un leaderismo che si contrappone alle mediazioni della politica, intese come pesanti, inutili e inefficienti. Il leaderismo individualista è molto presente nella narrazione politica di Trump ed è rintracciabile anche nella scelta di avere al proprio fianco una figura come Elon Musk; ma non è secondario nemmeno per Meloni, che in moltissimi passaggi del suo governo ha insistito sulla propria unicità individuale di leader. A differenza delle leadership autoritarie del passato, però, che si fondavano su strutture istituzionali solide o almeno apparentemente stabili (partiti, governi, burocrazie, eserciti), queste destre tendono a valorizzare un leaderismo estremamente personalistico e svincolato da meccanismi istituzionali. Un leaderismo immediato, nel quale, appunto non vi siano mediazioni e il leader arriva dal basso, dal nulla e entri in modo autonomo nell’arena politica (si pensi a Meloni rappresentata come “underdog”). In questo modo, il leader che arriva dal basso, celebrato nella sua unicità individualista, non si pone come interprete di un’ideologia strutturata o come mediatore di progetti articolati e complessi, bensì come decisore diretto, pronto a adattare le proprie scelte alle contingenze del momento. Un decisore eclettico e assoluto, ossia svincolato dal farraginoso peso delle istituzioni e delle ideologie, pronto a essere lui di persona la vera mediazione tra singoli e collettività. Questo approccio sembra ispirarsi ad una retorica manageriale e, di fondo, aziendalista, in cui la politica viene assimilata alla gestione di un’azienda. Così ecco che la rapidità decisionale trova la sua giustificazione a scapito della riflessione politica collegiale, istituzionale e mediata. Il leader politico come il CEO di un’azienda, in grado di decidere rapidamente, praticamente su ogni questione, svincolato e direttamente responsabile – almeno, questa è la rappresentazione – di ogni scelta, perché, come dice spesso Meloni, il leader “ci mette la faccia”.
L’estetizzazione del decisionismo attraverso la comunicazione aggressiva
Infine, un quarto elemento chiave – sempre legato a doppio filo al personalismo leaderista manageriale – è l’uso spregiudicato della comunicazione, che non si limita a un’efficace strategia mediatica, ma diventa un vero e proprio strumento di modellazione dell’opinione pubblica e del proprio elettorato. L’utilizzo massiccio ed esclusivo di certi social media e della televisione rispetto ad altri mezzi di comunicazione suggerisce una tendenza a privilegiare il ruolo dell’immagine sul discorso. Vi è infatti un tratto comune tra Meloni, Trump e gli altri leader della destra neoliberale che è quello di estetizzare la decisione politica attraverso immagini eloquenti, in grado di riassumere la decisione in un linguaggio più immediato e più comprensibile del discorso politico. Alcuni social media si distinguono proprio perché in grado di veicolare messaggi in modo diretto, rapido e per questo, apparentemente, chiaro. I video e le foto che circolano sui social media permettono l’uso di discorsi non articolati, immediati e standardizzati, che colpiscono il pubblico ma evitano con esso un confronto intellettuale, creando un rapporto drammaticamente asimmetrico tra chi agisce e posta e chi guarda e subisce. L’uso dell’immagine e del video consente anche un passo in più, che il discorso, per via della sua maggiore complessità e articolazione, consente di meno. Il potere dell’immagine e del video consente di spostare progressivamente il discorso politico verso forme di espressione sempre più polarizzate e provocatorie, in cui la violenza verbale e simbolica è più facile da veicolare e viene normalizzata rispetto a quanto accadrebbe nel discorso articolato a parole. Si pensi all’immagine potentissima e violenta degli immigrati rimpatriati in catene postata da Trump. Un’immagine che convoglia criminalizzazione dell’emigrante, metodi non convenzionali di trattamento, militarizzazione di un problema squisitamente sociale ed estetizzazione estrema della decisione diretta del presidente, visto che fu postata a poche ora dall’insediamento. In modo comparabile si pensi all’utilizzo strumentale da parte di tutta la destra italiana delle esondazioni in Emilia-Romagna del 2023 e del 2024 per attaccare le amministrazioni regionali. Un messaggio politico provocatorio e indecente, reso più facile dall’immediatezza e dalla potenza delle immagini che, in quel caso, permisero di suggerire in modo impudente al pubblico che la colpa delle alluvioni fosse di chi amministrava la regione. A differenza delle epoche passate, in cui la propaganda si fondava su mezzi più rigidi come la stampa o la radio, oggi i social network permettono un’interazione diretta e asimmetrica tra leader e pubblico, creando bolle comunicative in cui le narrazioni politiche possono radicalizzarsi senza ostacoli e le forme estreme e provocatorie di comunicazione divengono facili da sdoganare.
[1] Carlo Galli, Democrazia, Ultimo Atto?, Einaudi. Stile Libero Extra (Torino: Einaudi, 2023), 12–19.
[2] Gary Gerstle, The Rise and Fall of the Neoliberal Order: America and the World in the Free Market Era (New York, NY, United States of America: Oxford University Press, 2022).
[3] È proprio la vocazione neoliberale di queste destre che le porta a trovare interlocutori privilegiati in leader come Milei o Bolsonaro – espressione limpida del progetto neoliberale e del suo rapporto con la democrazia – qui non inclusi perché appartenenti a contesti politici non propriamente occidentali. Si veda Dieter Plehwe, Quinn Slobodian, and Philip Mirowski, eds., Nine Lives of Neoliberalism (London ; New York: Verso, 2020).
[4] Questa è un’espansione della proposta teorica di Carlo Galli, si veda Carlo Galli, La Destra al Potere: Rischi per La Democrazia?, Prima edizione, Temi (Milano: Raffaello Cortina editore, 2024).
[5] https://www.elmundo.es/espana/2024/11/26/6745d144e9cf4afb148b459a.html
[6] https://www.independent.co.uk/news/world/americas/us-politics/trump-native-americans-trail-of-tears-twitter-elizabeth-warren-pocahontas-election-campaign-a8772051.html
[7] Galli, La Destra al Potere, 55–60.
[8] https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/10/29/musumeci-crisi-clima-alluvioni/7747671/