A Betlemme tra campi profughi e palazzi distrutti. Ciò che vediamo per me ha solo un nome: pulizia etnica

Cosa unisce la nostra visita dei giorni scorsi a Hebron alla visione di Betlemme dall’alto dei suoi tetti? Entrambe le città sono oggi prigioni a cielo aperto. Dei bambini ci fanno salire quassù, da qui si vedono i cancelli e i checkpoint che chiudono tutta l’area urbana. Camminiamo sui tetti piatti facendoci largo fra grandi […] L'articolo A Betlemme tra campi profughi e palazzi distrutti. Ciò che vediamo per me ha solo un nome: pulizia etnica proviene da Il Fatto Quotidiano.

Mag 2, 2025 - 18:55
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A Betlemme tra campi profughi e palazzi distrutti. Ciò che vediamo per me ha solo un nome: pulizia etnica

Cosa unisce la nostra visita dei giorni scorsi a Hebron alla visione di Betlemme dall’alto dei suoi tetti? Entrambe le città sono oggi prigioni a cielo aperto. Dei bambini ci fanno salire quassù, da qui si vedono i cancelli e i checkpoint che chiudono tutta l’area urbana. Camminiamo sui tetti piatti facendoci largo fra grandi cisterne blu, che sono le loro riserve d’acqua.

All’ingresso del campo profughi c’è un grande portale in pietra, sovrastato dalla gigantesca scultura di una chiave metallica. Quella chiave racconta la storia di chi vive qui: i figli della Nakba del 1948, quando centinaia di migliaia di palestinesi furono espulsi o costretti a fuggire dalle loro terre, che ancora conservano ed espongono simbolicamente le chiavi delle loro case perdute.

Il Movimento delle Chiavi è un simbolo potentissimo della resistenza palestinese e della lotta per il diritto al ritorno. E Betlemme, cuore spirituale e culturale della Palestina, ha un ruolo centrale in questa lotta. È qui che, nelle manifestazioni, i giovani palestinesi portano con sé chiavi giganti sollevandole sopra la testa, simbolo di ciò che è stato perduto e rivendicano.

Molti palestinesi, soprattutto quelli della prima generazione di rifugiati, conservano ancora le chiavi delle loro case abbandonate, tramandandole di generazione in generazione in un gesto di memoria e di resistenza.

Tra le mura, le macerie del campo e i palazzi distrutti, incontriamo Munther Amira, attivista per i diritti umani e assistente sociale. Munter è stato rilasciato dal carcere militare di Ofer solo il 29 febbraio, dopo una detenzione arbitraria durata quasi un anno e mezzo. Ci racconta del giorno in cui è stato brutalmente arrestato dai soldati israeliani nella sua abitazione al campo profughi di Aida, separato dalla moglie Sanaa e dai figli, ammanettati e malmenati, dal fratello barbaramente picchiato. Tutto questo per dei post su Facebook contenenti presunti incitamenti alla violenza, incitamenti mai riscontrati dagli analisti di Amnesty International.

Sono anni che Munther è nel mirino della persecuzione politica israeliana, così si paga l’impegno politico. Nelle carceri ha visto orrori inimmaginabili, ma anche determinazione incrollabile.

Ci raggiungono anche gli attivisti di Emek Shaveh, Ong israeliana impegnata nella difesa del patrimonio culturale e dei siti antichi di Gerusalemme, Cisgiordania e Israele. È una battaglia non solo per preservare beni pubblici di inestimabile valore, ma politica: significa opporsi al fatto che le rovine del passato siano usate come strumento politico nel conflitto israelo-palestinese, che i siti archeologici diventino strumento per espropriare comunità.

Emek Shaveh coinvolge le comunità locali nei lavori sui siti, negli scavi, nelle visite guidate. Mentre lo fa monitora le violazioni dei diritti di proprietà palestinesi e dei diritti sul patrimonio culturale, contrasta i comitati di pianificazione e costruzione.

Uscendo dalle città palestinesi della Cisgiordania, ci muoviamo a lungo avanti e indietro dopo aver trovato due o tre checkpoint chiusi. Non so immaginare la pazienza di chi sopporta ogni giorno questa vita da topi in prigione.

Eppure, forse, ci sono prigioni ancora più dure e senza speranza perfino qui. Mentre, dal 7 ottobre, nella West Bank sono sorti 29 nuovi insediamenti di coloni assieme a mille nuovi check point e cancelli attorno ai villaggi palestinesi, nei campi profughi di Jenin, Tulkarem, Nur Shams la pulizia etnica ha colpito chi già decenni fa aveva perso e dovuto ricostruire tutto.

Davanti a uno dei cento cancelli comparsi attorno al campo profughi di Jenin, non sappiamo ancora che quella sarà una delle giornate più agghiaccianti di questa missione. Ci viene incontro il Governatore Kamal Abu Al-Rob. Ci accoglie con aria stupita, commosso nel veder arrivare una delegazione in un momento particolarmente drammatico: da cento giorni l’esercito israeliano è a Jenin, in 50 sono stati uccisi, centinaia sono stati fatti prigionieri. Proprio oggi, all’alba, la zona est è stata attaccata, causando la distruzione di tutte le infrastrutture, delle strade, di tante case, e l’arresto di una giovane dentista e del famoso giornalista Ali Samoudi, uno dei pochi che hanno continuato a seguire l’operazione militare lanciata lo scorso gennaio in quest’area.

“L’ambasciata non ci ha nemmeno avvisati della distruzione che avremmo subito questa mattina – racconta Al-Rob – Ormai siamo a 16 attacchi”. Mentre parla, il Governatore ha gli occhi lucidi e a stento riesce a trattenere le lacrime. Anche se la situazione è molto dura, non capiamo la ragione profonda di quel pianto. Poi comincia a raccontare: un giorno da casa abbiamo sentito degli spari, persone urlavano ed erano state ferite proprio lì davanti. Al-Rob tira fuori la foto di un giovane medico di una ventina d’anni. Racconta che quel giorno si è voltato verso quel giovane medico e gli ha detto di andare là, perché era suo compito. Mentre prestava soccorso ai feriti, i soldati israeliani hanno sparato 22 colpi, uccidendolo.

Quel medico, Shamakh, era il figlio del Governatore, l’esponente più importante della regione. Non si dà pace perché, anche se non lo sapeva, l’ha mandato a morire. “Ci sono delle persone che soffrono più di me – aggiunge oramai piangendo. – Grazie a Dio, io ho ancora una parte della mia famiglia, anche se ogni tanto pensiamo che avremmo voluto morire tutti con lui”.

C’è una bandiera su un edificio in lontananza, dentro quell’edificio ci sono le forze israeliane, prima era la casa di chi ci sta guidando, proprio dietro al Freedom Theatre. Il Teatro, una delle più grandi istituzioni culturali della Palestina, è inaccessibile. Dentro ci sono soldati e i cecchini israeliani, ecco perché inizialmente non possiamo muoverci né entrare nel campo. Con l’operazione di chiusura del campo di Jenin, ha chiuso anche il teatro, privando tutta la cittadinanza – soprattutto i bambini – della forma stessa della sua vita sociale, culturale e ricreativa.

Quello che stiamo vedendo per me ha un solo nome: pulizia etnica.

Qualunque cosa il governatorato possa offrire alle famiglie cacciate non sarà mai come rendere loro le memorie, la storia, la vicinanza delle loro case. Ma non ci sono solo gli sfollamenti forzati. La chiusura dei passaggi principali ha colpito duramente l’economia, portando la disoccupazione al 55%; ha negato a 6000 studenti l’accesso all’università. A ogni attacco, l’amministrazione – appoggiandosi al settore privato – tenta di mettere a posto le infrastrutture, riparare le strade, ma poi succede di nuovo. Ogni volta l’esercito ha colpito il sistema idrico, le acque reflue, i collegamenti che forniscono acqua anche all’ospedale di Jenin, l’unico del governatorato per circa 550mila persone, assediato a lungo. Dentro il campo, i militari stanno modificando le dimensioni delle strade, trasformando la geografia e la demografia del luogo. Ora, tutto intorno, ci sono cinque porte e 10 cancelli di metallo.

I rappresentanti dell’associazione Freedom Theatre completano il racconto. Chiariscono che questa operazione a Jenin non nasce il 7 ottobre, ma va avanti da 3 anni, quando 6 prigionieri fuggirono attraverso un tunnel dal carcere di Gilboa. Eppure, anche qui, dal giorno dell’attentato la situazione è diventata terribile: demolizioni di case e infrastrutture, uccisioni randomiche, incendi, quartieri evacuati anche attorno al campo.

Le donne sono il target principale dalla pulizia etnica: hanno perso mariti, padri, fratelli, figli e si trovano sole e senza più una casa. Non possono portare niente con sé, vengono cacciate con i soli abiti che indossano, private di ricordi, memorie, private delle loro mansioni, trasferite fuori dalla città in posti completamente nuovi e sconosciuti. Donne che magari erano le uniche a guadagnare nella famiglia, che si ritrova senza mezzi di sostentamento; donne costrette a tragitti nuovi e lontani per portare a scuola i figli, dopo la chiusura delle proprie.

Questa mattina, poco prima dell’incontro con i volontari del Forum delle famiglie degli ostaggi israeliani sequestrati da Hamas il 7 ottobre, il sole sorgeva anche su Gaza e almeno 22 palestinesi perdevano la vita sotto i raid aerei. Amnesty International ha parlato di un “genocidio in diretta streaming”, mentre da The Lancet arrivavano le stime sull’aspettativa di vita media dei palestinesi: -51,6% per gli uomini dall’inizio dell’offensiva, con una perdita di 34,9 anni di vita, -38,6% per le donne, con una perdita di 29,9 anni.

Ma Israele non arretra di un passo, anzi. Le Forze di difesa dichiarano l’intenzione di emettere ordini di leva per decine di migliaia di riservisti, in vista di un’espansione dei combattimenti nella Striscia di Gaza, ma anche di operazioni in Libano, Siria e Cisgiordania. Durante il Memorial Day sul Monte Herzl, a Gerusalemme, il ministro della Difesa Katz ribadisce che l’obiettivo è “ottenere una vittoria netta, senza compromessi”.

Intanto, le Ong umanitarie internazionali che operano nei Territori Occupati si trovano ad affrontare crescenti restrizioni: Israele ha imposto nuove linee guida per la loro registrazione, costringendole a recarsi presso un comitato interministeriale israeliano che con estrema discrezionalità (e scelte chiaramente politiche) approva o nega registrazione e visti per il personale. L’ennesima violazione del diritto internazionale, che impone alle potenze occupanti di facilitare l’assistenza umanitaria.

È una storia che non possiamo raccontare tutta intera. Nemmeno vogliamo mostrare ognuna delle scene, spesso terribili, che abbiamo visto. Per questo, per non alimentare la pornografia dell’orrore, ho scelto di tenere per me e non pubblicare le immagini più scioccanti.

Oggi, sulla Spianata delle Moschee, cuore della resistenza palestinese, riecheggia la memoria della Seconda Intifada, nata dalla rabbia per l’occupazione e le tante promesse tradite. Qui, nel cuore di Gerusalemme, dove la storia si intreccia con la lotta, il diritto alla libertà non può essere cancellato e si alza un messaggio chiaro: il cessate il fuoco, la fine dell’apartheid, il riconoscimento dello Stato palestinese non fanno solo parte di una battaglia per i diritti dei palestinesi a esistere, ma di un appello universale per la giustizia e la libertà di tutti gli oppressi. Perché Gerusalemme torni a essere una città di tutte e tutti. Senza tornelli, cecchini e barriere.

Speriamo di avere contribuito, nel nostro piccolo, a far risuonare quell’appello. Occhi in Palestina, anche per questo, non finisce qui.

L'articolo A Betlemme tra campi profughi e palazzi distrutti. Ciò che vediamo per me ha solo un nome: pulizia etnica proviene da Il Fatto Quotidiano.