The Legend of Ochi, il sorprendente e poetico ritorno del fantasy con un occhio a E.T. e Goonies
Un fantasy sbalorditivo ci voleva davvero. The legend of Ochi, opera prima di Isaiah Saxon, è un tuffo sognante e inquieto in un cinema d’avventura anni ottanta che pareva sparito dai radar hollywoodiani. Nel mondo re-immaginato di un tumefatto, grigio, grufolante est Europa montano chiamato Carphatia, l’adolescente Yuri (Helena Zengel), impermeabile giallo e bruchi come […] L'articolo The Legend of Ochi, il sorprendente e poetico ritorno del fantasy con un occhio a E.T. e Goonies proviene da Il Fatto Quotidiano.

Un fantasy sbalorditivo ci voleva davvero. The legend of Ochi, opera prima di Isaiah Saxon, è un tuffo sognante e inquieto in un cinema d’avventura anni ottanta che pareva sparito dai radar hollywoodiani. Nel mondo re-immaginato di un tumefatto, grigio, grufolante est Europa montano chiamato Carphatia, l’adolescente Yuri (Helena Zengel), impermeabile giallo e bruchi come migliori amici, è spinta dal padre Maxim (Willem Dafoe) a cacciare assieme ad altri ragazzini con fucili e pugnali gli ochi, scimmiette dai denti aguzzi, viso azzurrino e audaci vocalizzazioni.
La rapida introduzione è illustrativa di una mini apocalisse modello The Village (coprifuoco, miseria tra case e strade, bosco oscuro dove risiede il buio e il pericolo animale) e di una serrata caccia notturna tra alberi a fuoco, ochi che scappano saltando disperati e furenti di ramo in ramo, luna in profondità, pallottole ovunque e una sadica cattiveria di uccidere. In pratica i 5 minuti iniziali sono un saggio di bravura di Saxon, uno che sembra avere in mano la situazione sia narrativamente che tecnicamente. Ed essendo un racconto di formazione classico, The legend of ochi riparte in quinta, appena dopo il prologo, con l’improvviso scarto di Yuri: basta ascoltare nostalgie sentimentali familiari e rigide regole disciplinari paterne. La ragazzina corre a recuperare un cucciolo di ochi ferito, con la zampina incastrata e sanguinante in una umana tagliola: prova a curarlo a casa ma per salvare la creatura dalle familiari angherie le tocca scappare di nuovo per riportare il piccolo dalla madre nella lontana terra delle grotte.
In questo periglioso ma rapido viaggio di Yuri e dell’ochi la ragazzina imparerà un nuovo linguaggio con cui comunicare con il prossimo, riattiverà il rapporto con la madre (Emily Watson) isolata pastora pifferaia magica in mezzo ai monti, mentre viene braccata dal padre e dai ragazzini dal grilletto facile. Non c’è alcuna interruzione sentimentale o sbrodolamento comico dissacratorio in The legend of ochi. Perché è cinema compatto e tirato quello di Saxon, precipitato visivo, iconico, animalesco tra ordine austero da ex Unione Sovietica (le simil Trabant colorate come Smarties, geniale) e un selvatico rambesco ovest statunitense. Laddove la foresta si fa incantata dominano le creature pupazzo (senza intervento in CGI, dicono) e i fondali che sembrano usciti da horror di genere con le nebbioline insinuanti tra frasche, rocce e neve che offuscano il sole. Quando invece si svicola in sparuti interni si passa da uno sfrenato lussureggiante ipermercato di colorate leccornie a fattorie sgarrupate zeppe di obsoleti oggetti accatastati.
Inoltre, anzi dovremo dire soprattutto, il pacchetto The legend of ochi offre l’apporto musicale totalizzante di David Longstreth, tra la magniloquenza di John Williams e il minimalismo di un Desplat prestato a Malick, che in molte sequenze letteralmente si sostituisce guizzante alla parola e ai dialoghi. L’amalgama finale è creativamente organica, esteticamente accattivante, drammaturgicamente matura. Con questo ostinato delicato strappo nella crescita di Yuri che rifiuta il padre e tutto quello che simbolicamente rappresenta, abbracciando una lingua nuova, profonda, naturale, che la catapulta in un mondo non più bambinesco. Saxon ha uno stile stravagante e comunque incasellabile, mai troppo stiloso, sempre estremamente concreto, un occhio a E.T. senza mai rincorrerlo e uno ai Goonies senza mai copiarlo.
La carriera da regista di videoclip gli deve avere paradossalmente insegnato a raccogliere i dettagli essenziali che servono alla potenza del racconto senza troppi fronzoli formali. Tant’è che i momenti più toccanti e sconvolgenti del film sono quelli senza parole, dove vale la forza delle singole inquadrature e sequenze (seguite quella in cui l’ochi nascosto nell’incavo di un tronco comunica con Yuri che piange), il commento musicale insinuante, il lavoro di attori (e animatori dei pupazzi). Zengel, in questa chiave di doppiezza identitaria, si muove nell’ampio registro dell’espressività e dell’azione come fosse un’attrice consumata. Dafoe giganteggia oramai come figura caricaturale surreale. Mentre sorprende la Watson che trova un suo personale registro di nomade delle montagne tenace e ruvida come pochi. Produce la A24. Distribuisce per l’Italia I Wonder. Ovviamente, a farci la figura da trogloditi non sono certo gli animali, ma i ridicoli umani stolti cacciatori.
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