Perché mi preoccupano le parole di Draghi sull’Ue come Stato
Le follie green dell'Ue e quell'appello di Draghi all'Ue. La lettera di Teo Dalavecuras

Le follie green dell’Ue e quell’appello di Draghi all’Ue. La lettera di Teo Dalavecuras
Caro direttore,
stavo ancora rimuginando la cacofonia di commenti-polemiche-denunce-sdegni e professioni di fede che ha salutato negli ultimi giorni eventi caratterizzati politicamente ma al tempo stesso mediaticamente, dall’intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di consegna dell’onorificenza accademica di Dottore honoris causa dall’Università di Aix-Marseille, al discorso di James David Vance alla Conferenza di Monaco (senza trascurare i “missili” a scoppio ritardato arrivati da Mosca all’indirizzo del Quirinale), quando sono inciampato in un fulminante passaggio di Not Zero, un saggio di Ross Clark pubblicato nel 2023 e poi, con una nuova prefazione, nel 2024.
Clark è un giornalista, narratore e saggista di mezza età di orientamento “libertarian” che scrive per The Spectator e altre testate, noto fra l’altro per aver firmato un musical di successo e per essersi lasciato impigliare in una iniziativa politica di Cameron (impresa durata poco e finita male). Trascrivo parola per parola il passaggio: “In breve, la Gran Bretagna si sta imbarcando in un esperimento senza precedenti nella storia umana, quello di abbandonare intere tecnologie che oggi fanno funzionare la società e l’economia, per rimpiazzarle con nuove tecnologie, in parte non ancora esistenti, in parte esistenti, forse, solo a livello dimostrativo senza essere mai state applicate a livello industriale”.
Clark si riferisce alla strategia di lotta al cambiamento climatico mediante azzeramento delle emissioni di CO2 entro il 2050 (“Net Zero”, donde il titolo irridente del libro, Not Zero) che quasi solo il Regno Unito ha tradotto in un impegno legislativamente sanzionato, adottato senza alcun dibattito parlamentare degno di nota, nella totale opacità del costo da qui al 2050. il Climate Change Committee lo aveva stimato nell’1-2 per cento annuo del pnl del Regno Unito, in ogni caso non oltre mille miliardi di sterline in totale, mentre il National Grid ESO (ente parastatale per la gestione delle reti elettriche e del gas), nel 2020 aveva stimato un costo totale di tre mila miliardi. Di fronte a stime così divergenti il governo aveva stabilito che era troppo presto per fare previsioni sull’entità della spesa.
Il “movente” di Clark è di denunciare, con un libro che è anche una miniera di informazioni, la follia di trasformare in obbligo legale una scelta (la “decarbonizzazione”) che a suo giudizio è opportuna ma che, allo stato attuale delle conoscenze e delle pratiche, non ha senso collegare a scadenze inderogabili, che fanno della “transizione energetica” un volo cieco nel futuro col biglietto “pagato” da un assegno in bianco firmato dal popolo britannico.
“Chissenefrega del Regno Unito!” potresti dire a questo punto, ma c’è un piccolo dettaglio: quella descritta da Clark per il suo Paese è la stessa prospettiva che gli architetti del Green Deal, quel monumento al delirio centralistico dell’Unione Europea edificato dalla signora Von der Leyen col suo sodale Franciscus Cornelis Gerardus Maria Timmermans nella precedente legislatura Ue, con due sole differenze: l’ordine di grandezza dell’economia che rischia di sfasciarsi e il fatto che nell’Europa della Ue, a differenza della Gran Bretagna, gli equivalenti di Ross Clark, con la voglia e la capacità di raccontare ai concittadini – quanto meno a quelli disposti a leggere un libro – quale futuro stia preparando ai propri sudditi la Commissione Ue, sono “sterilizzati” dalla massiccia manipolazione dell’opinione pubblica cui da tempo ormai si dedica la Commissione finanziando testate, ricerche universitarie e una miriade di enti “no profit” che operano come satelliti di Bruxelles (in questi giorni anche sponsorizzando pubblicamente – perché nessuno pensi che da quelle parti ci siano timidezze – il Brussels Playbook di Politico).
Il discorso sull’omertà (o su qualche menomazione invalidante) che contraddistingue il sistema dei media europei e di quella che i tedeschi un tempo chiamavano ottimisticamente la freischwebende Intelligenz lo faremo però un’altra volta; per il momento basti dire che, benché esista nutrita e accademicamente titolata letteratura che contesta alla radice il teorema del ruolo causale delle emissioni di CO2 nel riscaldamento del pianeta e nella “crisi climatica”, e della affidabilità dei modelli climatici sui quale si basa la pianificazione pluridecennale del Green Deal (altro che i sovietici con i loro patetici piani quinquennali…) in Europa non si è visto nessun tipo di dibattito che abbia coinvolto l’opinione pubblica: tutto quel che si dice in materia è articolo di fede e chi dissente si pone fuori del consorzio civile, è “negazionista climatico”. Per il popolo bastano e avanzano esercizi come le sagre del venerdì mattina di Greta e Beppe a Milano, o le prodezze di Extinction Rebellion.
Nel frattempo, direttore, vorrei attirare la tua attenzione su un altro aspetto. Con quell’arroganza che non è solo una conseguenza ma un prerequisito del potere, la signora von der Leyen spiega che dopo l’immane lavoro del Green Deal, questa legislatura sarà quella della competitività, argomento che la Commissione affronterà con la stessa determinazione. Questo è il succo del “Competitiveness Compass for the EU” (“bla bla bla” secondo l’informale ma efficace definizione di questo testo inverecondo fornita dal presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, a Radio24, che ha messo per un istante in imbarazzo il pur spigliato conduttore Sebastiano Barisoni). Competitività che sarà perseguita senza pregiudizio della transizione energetica (che allo stato comporterebbe sanzioni di miliardi di euro per l’automotive europeo, rispetto alle quali la Commissione vedrà, provvederà, farà sapere – ndr).
Quando scrivo inverecondo penso con nostalgia alle librerie stracolme di inutili piani per lo sviluppo, dei tempi della Cassa per il Mezzogiorno (a proposito, quanto ci sono costati, a noi contribuenti europei, i due volumoni prodotti dai collaboratori di Mario Draghi “distillati” poi nel Competitiveness Compass – Draghi, da vero signore, avrà lavorato gratis, ne sono certo e lo scrivo senza nessuna ironia)? Te lo chiedo perché mi pare che qualche sospetto sul ritardo accumulato negli ultimi vent’anni dall’Europa dell’Ue circolasse già e, forse, un certo contributo l’hanno dato anche le policies di Bruxelles nella precedente legislatura.
Comunque sia, questo è lo sfondo sul quale le élites politiche europee, che già non hanno saputo fare altro che riconfermare per altri cinque anni la signora von der Leyen, possono solo “abbozzare”. É evidente che la scelta sciagurata di confermare vdL è conseguenza di un’architettura istituzionale che oggi si può definire solo altrettanto sciagurata: tutti lo sanno ma tutti fanno finta di niente. Peggio, fanno finta di stupirsi e offendersi quando il signor Vance, già “allievo” di Peter Thiel e oggi vicepresidente degli Stati Uniti, dice queste cose ad alta voce. Fino a quando l’Europa seguiterà a far finta di niente a occuparsi e preoccuparsi solo di Trump, di Musk, magari della signora Le Pen? Il sollievo con il quale i “leader” europei cavalcano l’emergenza indotta dalle continue disruption del presidente Trump, emergenza che consente loro di seguitare a ignorare lo sciagurato assetto istituzionale nel quale l’Europa della Ue versa, si tocca con mano.
Mi chiedo, caro direttore, fino a quando le élites europee potranno seguitare a far finta di niente, e me lo chiedo per una ragione precisa. Lunedì Draghi ha pronunciato davanti al Parlamento europeo le seguenti parole: “Dobbiamo agire sempre più come se fossimo un unico Stato”. Una battuta che le testate “mainstream” hanno riportato col consueto distacco professionale: “Draghi scuote l’Europa” (Corsera), “Draghi sferza l’Europa” (Giornale e Repubblica), col gran finale del Resto del Carlino che, per fare onore al proprio nome, titola: “Mattarella e Draghi pilastri d’Europa”.
Devi resistere, direttore, alla tentazione di ripetere – pensando al “whatever it takes” del Draghi banchiere centrale – la boutade marxiana della storia che si ripete sempre due volte, la seconda come farsa. Perché il come se di Draghi è serissimo e rappresenta la quintessenza del pensiero burocratico (oltre a vantare una più che autorevole ascendenza filosofica che risale quanto meno a Immanuel Kant). C’è anche un sinistro umorismo nel fatto che queste parole siano risuonate nell’aula di un Parlamento, sia pure immaginario come quello europeo. Perché il messaggio, tradotto in parole povere suona così: “Cara Ue, noi, combinato disposto della tecnologia e della burocrazia, siamo il potere e operiamo secondo ragione: non lasciarti distrarre dall’emotività, dalle imperfezioni e dalle pedestri insofferenze della gente della vita reale, dalla storia, dalla cronaca, il modello ce l’hai sotto gli occhi, è lo Stato. Agisci come se l’Ue lo fosse”.
Quella di Draghi non è solo una frase lapidaria, che riassume in una slogan il totale disprezzo di un grand commis per le istituzioni della politica: è anche, purtroppo, la pietra tombale su qualsiasi residua ambizione, speranza o velleità di fare dell’Europa un soggetto politico, cioè responsabile verso i propri concittadini.
Viva la democrazia liberale, caro direttore!