L’ascesa di Multiversity: l’università come business?

L’università italiana sta vivendo una trasformazione storica e inquietante. Per la prima volta, il più grande ateneo per numero di iscritti non è più un’istituzione pubblica secolare come La Sapienza […]

Feb 19, 2025 - 09:54
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L’ascesa di Multiversity: l’università come business?

L’università italiana sta vivendo una trasformazione storica e inquietante. Per la prima volta, il più grande ateneo per numero di iscritti non è più un’istituzione pubblica secolare come La Sapienza di Roma (111.960 studenti nell’a.a. 2023/24), ma il Gruppo Multiversity – un consorzio privato di università telematiche con ben 169.020 iscritti complessivi. Multiversity S.p.A. include atenei online come Pegaso, Mercatorum e San Raffaele, ed è controllato dal fondo d’investimento britannico CVC Capital Partners, a sua volta legato al colosso bancario statunitense Citigroup. Questo sorpasso simbolico segna il passaggio da un sistema accademico prevalentemente pubblico e no-profit a uno dominato da entità private for-profit, sollevando interrogativi profondi sul futuro dell’istruzione superiore in Italia.

Un modello di business aggressivo e la privatizzazione dell’accademia

Il modello di business di Multiversity e degli atenei telematici in generale segue logiche d’impresa più che accademiche. A differenza delle tradizionali università private non profit (che reinvestono gli utili nella didattica e nella ricerca), queste nuove istituzioni operano come società di capitali finalizzate al profitto. Alcune caratteristiche distintive di questo modello includono:

  • Investitori e obiettivi commerciali: Multiversity risponde a investitori internazionali e mira alla crescita economica. L’azionista di riferimento è un fondo estero (CVC) interessato al rendimento finanziario, una situazione inedita per un ateneo italiano di tali dimensioni.
  • Riduzione dei costi strutturali: Le università telematiche erogano corsi online, risparmiando su campus fisici e infrastrutture. Non devono mantenere aule per migliaia di studenti né sostenere spese di servizi logistici (portineria, pulizie, sicurezza) come invece fanno gli atenei tradizionali. Anche il corpo docente è ridotto al minimo necessario.
  • Normative favorevoli: Fin dalla loro istituzione (nel 2004, governo Berlusconi), hanno goduto di requisiti meno stringenti. Ad esempio, bastava la metà dei docenti richiesti a un corso di laurea tradizionale per attivarne uno telematico. Ciò ha permesso una rapida proliferazione di corsi senza l’onere di ampie facoltà stabili. Solo di recente il legislatore ha cercato di colmare questo gap normativo, inizialmente fissando al 2024 l’adeguamento degli organici ai livelli degli atenei pubblici, salvo poi concedere proroghe e maggiore flessibilità.
  • Entrate elevate da rette e fondi pubblici: Il business telematico si regge su rette studentesche cospicue (medie di ~2.500 € annui, fino a punte di 7.000 € in atenei come eCampus). Malgrado siano aziende private “a scopo di lucro”, ricevono anche finanziamenti statali: circa 2 milioni di euro l’anno complessivi tra il 2012 e il 2022, con picchi di 2,8 milioni nel 2021. Lo Stato, in teoria risparmiato dai costi di gestione, di fatto sovvenziona questi atenei tramite fondi diretti e iniziative come PA 110 e Lode (che copre il 50% delle tasse universitarie per i dipendenti pubblici che si iscrivono per formarsi).

In sintesi, Multiversity incarna un approccio imprenditoriale all’educazione: massimizzare le iscrizioni e i ricavi riducendo i costi didattici. Questo segna uno scarto rispetto alla missione tradizionale dell’università pubblica, votata alla formazione critica e alla ricerca più che ai numeri di bilancio. La presenza invadente di capitali privati solleva anche dubbi di ordine costituzionale, poiché l’art.33 della Costituzione tutela la libertà di insegnamento e la ricerca – principi difficilmente garantiti se l’obiettivo primario diventa il profitto degli azionisti. Il rischio è una privatizzazione strisciante del sistema universitario, in cui logiche di mercato e convenienza commerciale dettano l’evoluzione dell’offerta formativa al posto dell’interesse pubblico.

Qualità formativa in calo e titoli deboli: conseguenze sul valore della laurea

L’espansione vertiginosa delle telematiche pone seri interrogativi sulla qualità dell’istruzione erogata e, di riflesso, sul valore reale dei titoli di studio rilasciati. I dati e le valutazioni ufficiali delineano un quadro preoccupante. L’indice studenti/docenti nelle università online è spaventosamente alto: in media un docente ogni 384 studenti, contro circa 1 ogni 28 nelle università tradizionali. Questo significa classi virtuali oceaniche e docenti sommersi da migliaia di esami, con ovvie ricadute negative sulla qualità della didattica e del feedback formativo. Non a caso, l’agenzia di valutazione ANVUR ha avvertito che pensare di reggere un’offerta formativa appaltando integralmente la docenza esterna (senza un adeguato corpo docente interno) denota “scarsa attenzione alla qualità” e alla centralità dello studente.

Gli atenei telematici tendono inoltre a una didattica standardizzata: lezioni registrate fruibili online, esami spesso costituiti da quiz a risposta multipla e interazioni sincrone ridotte al minimo. Questo format “industrializzato” dell’insegnamento può facilitare la fruizione per grandi numeri, ma limita lo sviluppo del pensiero critico e il confronto diretto docente-studente tipico delle lezioni in presenza. I risultati si vedono nelle valutazioni di qualità: secondo l’ANVUR, solo l’11% delle sedi telematiche ottiene un giudizio di piena soddisfazione, nessuna raggiunge l’eccellenza, mentre tra le università tradizionali ben il 46% raggiunge valutazioni da buone a molto positive. In altre parole, quasi tutte le telematiche si attestano sulla sufficienza risicata e alcune faticano persino a mantenere l’accreditamento (tanto che due di esse hanno ricevuto solo un’accettazione condizionata). È emblematico che perfino una giornalista autorevole come Milena Gabanelli, analizzando i dati, abbia evidenziato come la gran parte di questi atenei sia stata “rimandata a settembre” sul piano qualitativo.

Questa situazione incide sul valore del titolo di studio conseguito. Ufficialmente la laurea presa a Pegaso o Mercatorum ha lo stesso valore legale di quella presa alla Sapienza o a Bologna. Di fatto, però, iniziano a diffondersi percezioni di una laurea di serie B. La stampa ha parlato di “fabbrica delle lauree facili” per definire il fenomeno telematico. In vent’anni, queste università online – spesso vicine a ambienti politici di centrodestra – hanno semplificato la strada a chi cercava un titolo e arricchito proprietari spregiudicati con rette da 4.000 euro a studente. Il risultato? Un boom di neolaureati il cui percorso formativo riconosciuto è inferiore a quello tradizionale. Sul mercato del lavoro questo potrebbe tradursi in candidati meno preparati dal punto di vista pratico e teorico, e in datori di lavoro più diffidenti verso certe lauree. Se la tendenza continua, inflazionare il “pezzo di carta” senza garantirne la sostanza rischia di svalutare la laurea stessa come credenziale. Un titolo universitario potrebbe non rappresentare più una sicura attestazione di competenze, costringendo aziende e enti a distinguere (ufficiosamente) tra laureati tradizionali e telematici, oppure a imporre prove aggiuntive per verificarne le reali capacità.

Inoltre, l’offerta formativa delle telematiche si concentra su discipline a basso costo (spesso ambiti umanistici o giuridici) con minori esigenze di laboratorio. Ciò potrebbe creare squilibri nell’offerta di laureati: migliaia di nuovi dottori in legge o economia ogni anno senza un corrispondente aumento di posti qualificati, mentre settori tecnici o sanitari – più costosi da insegnare online – restano scoperti. Il rischio occupazionale è duplice: da un lato giovani laureati telematici in discipline sature potrebbero incontrare maggiori difficoltà a collocarsi; dall’altro lato, qualora tali laureati vengano assunti in ruoli chiave senza adeguata preparazione, la produttività e la qualità professionale ne risentiranno, con potenziali danni per le aziende e le istituzioni. In definitiva, una proliferazione indiscriminata di titoli “facili” rischia di abbassare l’asticella generale, creando un circolo vizioso in cui la laurea perde prestigio e significato, e l’istruzione superiore italiana vede eroso il suo capitale di competenze.

Università tradizionale vs telematica: accessibilità per tutti o formazione superficiale?

Un aspetto centrale di questa rivoluzione è il cambio nel modo di fruire l’istruzione universitaria. Le università telematiche hanno indubbiamente ampliato l’accessibilità degli studi: chiunque, da qualsiasi luogo, può iscriversi e seguire lezioni senza trasferirsi né frequentare fisicamente. Questo modello attira nuove tipologie di studenti, inclusi lavoratori full-time, genitori, adulti in formazione continua e persone che vivono lontano dai grandi poli accademici. In passato queste categorie avrebbero faticato a laurearsi, mentre oggi possono farlo dal salotto di casa. Non sorprende che durante la pandemia di Covid-19, con la didattica a distanza sdoganata su larga scala, le iscrizioni alle telematiche siano esplose (+444% di studenti tra il 2012 e il 2022). Persino molti neodiplomati iniziano a scegliere atenei online come prima opzione, attratti dalla flessibilità: già oggi per numerosi under-23 l’iscrizione a una telematica è preferibile a un ateneo tradizionale. In un paese dove l’università tradizionale spesso implica trasferimenti costosi in città lontane, affitti e mantenimento, l’università “diffusa” online appare più inclusiva e conveniente. Su questo fronte, le telematiche hanno il merito di aver democratizzato l’accesso alla laurea, intercettando anche quella domanda di formazione continua promossa a livello europeo (emblematica la convenzione con la Pubblica Amministrazione per formare i dipendenti tramite corsi online, nell’ambito di PA 110 e Lode affidato proprio al gruppo Multiversity).

Tuttavia, l’accessibilità non equivale automaticamente a qualità. La formazione universitaria tradizionale non consiste solo nel trasferimento di nozioni, ma in un complesso percorso di crescita personale, pensiero critico e socializzazione intellettuale. Elementi difficilmente replicabili dietro uno schermo. Nelle università tradizionali lo studente interagisce quotidianamente con docenti e colleghi, partecipa a dibattiti in aula, laboratori, lavori di gruppo, vive un’esperienza comunitaria che stimola soft skills e maturità. L’ambiente accademico in presenza funge da palestra di cittadinanza e confronto, creando anche networking utile per la carriera. Al contrario, lo studente telematico tipico affronta un percorso più solitario: fruisce di videolezioni registrate e materiale didattico standard, sostiene esami spesso automatizzati. L’interazione, se prevista, avviene via forum o chat con tutor, raramente con il professore titolare del corso. Questo modus operandi può andare bene per contenuti basilari, ma rischia di tradursi in una preparazione superficiale. Senza il pungolo di lezioni dal vivo e appelli rigorosi, lo studente può diluire l’impegno o limitarsi al minimo indispensabile per superare test a crocette. I dati sull’efficacia formativa lasciano perplessi: la prevalenza di esami nozionistici e l’assenza di verifiche orali approfondite può compromettere la capacità di argomentazione e l’apprendimento critico. In pratica, molti laureati online potrebbero conoscere la teoria sulla carta, ma aver sperimentato poco l’applicazione pratica e il problem solving in contesti reali.

Va anche notato che la selezione in ingresso ed in itinere tende a essere più morbida nelle telematiche. I corsi di laurea tradizionali più ambiti spesso hanno test d’ammissione o sbarramenti (si pensi a Medicina, ma anche a Psicologia o altri corsi con numero programmato) e lungo il percorso universitario c’è una fisiologica scrematura. Nelle università telematiche, l’approccio “lo studente-cliente ha sempre ragione” potrebbe indurre a tassi di promozione più alti: dopotutto, ogni studente che abbandona è una retta persa. Questo alimenta l’idea (diffusa tra l’opinione pubblica) che siano “lauree facili” conseguite dal divano di casa, un’ombra che pesa sul riconoscimento di queste istituzioni. Come si chiedeva polemicamente un editoriale, *sono università serie o piuttosto diplomifici?*. La risposta dipende da ateneo ad ateneo, ma il dubbio stesso evidenzia la frattura di percezione tra i due modelli formativi.

In definitiva, la sfida è trovare un equilibrio tra flessibilità e rigore accademico. L’innovazione digitale applicata allo studio universitario ha un enorme potenziale democratizzante, ma se non accompagnata da standard qualitativi solidi, rischia di produrre una generazione di laureati “a metà”, con competenze certificate sulla carta ma non effettivamente consolidate. L’accesso all’istruzione non può diventare un semplice slogan commerciale: dev’essere seguito dalla garanzia che ogni studente, anche online, riceva formazione di alto livello e un’esperienza educativa completa, e non solo un diploma spedito via email.

Università tradizionale vs telematica: accessibilità per tutti o formazione superficiale?

Il sorpasso di Multiversity su La Sapienza non è solo un fatto statistico: rappresenta il segnale di una possibile deriva mercantilistica nell’intero sistema universitario italiano. Se l’espansione di atenei privati e telematici prosegue a ritmo serrato, c’è il rischio concreto che l’istruzione superiore si trasformi in un mercato dominato dalla logica del profitto e dell’espansione commerciale, con conseguenze di vasta portata. Immaginiamo un futuro in cui le politiche accademiche – apertura di nuovi corsi, sedi, assunzioni di docenti – vengano decise in base a calcoli di redditività anziché sull’interesse scientifico o sociale. In parte, questo sta già accadendo: i gruppi telematici puntano ad aumentare iscritti e quote di mercato, aprendo sedi d’esame in ogni provincia e lanciando corsi di laurea pensati per attirare il maggior numero di clienti/studenti. Ad esempio, si moltiplicano i corsi in ambito psicologico, pedagogico, gestionale – molto richiesti e relativamente economici da erogare online – mentre materie STEM o medico-sanitarie restano marginali, perché più costose e complesse da gestire a distanza. Si tratta di scelte guidate dal mercato, non necessariamente dai fabbisogni strategici del Paese in termini di competenze.

Una tale impostazione rischia di snaturare la missione dell’università. La ricerca scientifica, attività tipicamente in perdita economica ma fondamentale per il progresso e l’innovazione, potrebbe essere trascurata o lasciata quasi interamente ai (pochi) atenei pubblici rimasti forti. Già oggi le università telematiche investono poco in ricerca e dottorati, focalizzandosi sull’insegnamento di massa. Se il baricentro del sistema si sposta ulteriormente verso enti commerciali, la produzione di nuova conoscenza (brevetti, pubblicazioni, avanzamenti tecnologici) potrebbe subire un freno, con danno per l’intera società e l’economia nazionale nel lungo periodo. Inoltre, un sistema dominato dai privati potrebbe accentuare le disuguaglianze educative: gli atenei elite (pubblici o privati storici) resteranno punti di riferimento per formazione d’eccellenza e per i ceti più abbienti, mentre larga parte della popolazione studentesca sarà canalizzata verso corsi standardizzati di massa, erogati da mega-enti online a pagamento. L’istruzione superiore rischia di diventare biforcuta: da un lato un’istruzione “premium” per chi può permettersela (o superare selezioni rigorose), dall’altro una di massa, low-cost ma anche low-quality, per tutti gli altri. Questo sarebbe un tradimento del principio di uguaglianza delle opportunità su cui dovrebbe reggersi la democrazia italiana.

C’è poi il capitolo della influenza politica e conflitti di interesse. L’intreccio tra business dell’educazione e politica è già visibile: figure di spicco siedono nei consigli di amministrazione di questi atenei (emblematico l’ex presidente della Camera, Luciano Violante, ora ai vertici di Multiversity) e alcuni proprietari di università telematiche entrano direttamente in politica (il fondatore di Unicusano è diventato sindaco di Terni). Questa contiguità rischia di creare zone d’ombra: legislatori e governanti potrebbero essere tentati di favorire (o quantomeno non ostacolare) l’espansione di tali soggetti privati, anche a scapito dell’università pubblica. Le recenti scelte ministeriali sembrano in effetti aver allentato la presa: il cosiddetto decreto “uccidi-telematiche” varato nel 2021 dal governo Draghi, che imponeva standard più stringenti entro il 2025, è stato poi mitigato dall’attuale governo con proroghe che sanno di resa. Se le autorità di controllo abbassano la guardia, la “giungla” del mercato formativo potrebbe proliferare senza freni: atenei telematici che si moltiplicano, magari sotto nuovi marchi e fusioni, tutti in corsa per accaparrarsi fette di un lucroso business studentesco, con l’Italia che diverrebbe terreno di conquista per fondi d’investimento alla ricerca di rendite nell’education. In uno scenario estremo, le università pubbliche verrebbero relegate a ruolo marginale o trasformate esse stesse in fondazioni ibride, costrette a logiche aziendali per sopravvivere.

Le conseguenze a lungo termine di questa trasformazione possono essere nefaste. La riduzione dell’istruzione a merce comporta un cambio di paradigma: lo studente diventa cliente, il professore erogatore di un servizio a pagamento, il sapere un prodotto quantificabile in crediti e attestati. Si perde la visione dell’università come bene pubblico, fucina di spirito critico e ascensore sociale. Un sistema universitario governato dal profitto tende a espellere tutto ciò che non è immediatamente monetizzabile: corsi di nicchia, ricerche fondamentali, percorsi formativi personalizzati. Il rischio ultimo è formare generazioni di laureati magari dotati di diplomi ineccepibili sul piano formale, ma privati di quel surplus culturale e critico che storicamente ha contraddistinto i migliori atenei italiani. In un mondo sempre più complesso, avere classe dirigente e forza lavoro con formazione “standard” e appiattita potrebbe indebolire la capacità del Paese di innovare, di competere sul piano internazionale e anche di preservare la propria identità culturale.

In conclusione, l’ascesa del Gruppo Multiversity al vertice per numero di iscritti è un campanello d’allarme che non può essere ignorato. Dietro l’apparente successo dei numeri si intravedono rischi di degrado della qualità formativa, di svalutazione del titolo di studio e di uno snaturamento mercantile dell’istituzione universitaria. Una laurea ottenuta con facilità, senza solide basi, è un danno per lo studente e per la società che lo accoglierà come lavoratore. L’università, pilastro del progresso civile ed economico, non può ridursi a mero business. L’Italia deve interrogarsi se vuole davvero imboccare la strada di un’istruzione superiore “a misura di azionista” oppure difendere il valore di un sistema in cui la conoscenza non sia solo merce, ma investimento sul futuro collettivo. La sfida è aperta e il futuro dell’alta formazione nazionale dipenderà dalle scelte che verranno compiute oggi, bilanciando innovazione e accesso con il mantenimento di standard elevati e della missione pubblica dell’educazione. Le prossime generazioni meritano università che siano comunità di sapere, non catene di montaggio di laureati. E il primato di Multiversity, più che un traguardo da celebrare, va letto come un monito sui pericoli di mettere il profitto al centro dell’istruzione.