Intervista a Plant: “La musica è la mia terapia; in ‘Piccolo me’ ho messo tutto me stesso”

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Apr 6, 2025 - 18:11
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Intervista a Plant: “La musica è la mia terapia; in ‘Piccolo me’ ho messo tutto me stesso”

Dopo un periodo di di ricerca, crescita e sperimentazione, Plant (già componente de La Sad) debutta ufficialmente come solista con Piccolo me, un brano che è molto più di una canzone: è un manifesto emotivo, uno specchio di tutto ciò che è stato e che vuole diventare.

Lo abbiamo incontrato per parlare di questo nuovo inizio, tra vulnerabilità, libertà creativa e un passato che continua a bussare.

Intervista a Plant, il nuovo percorso parte con “Piccolo me”

Benvenuto su MusicFan, Plant! Come stai?

Ciao bro! Sto bene, stracarico per questo nuovo progetto. Ho appena messo il primo tassello di una lunga serie, quindi sono molto meno “aggassato” del solito.

Il tuo primo singolo da solista, Piccolo me, è un passo importante. Cosa rappresenta per te?

Hai centrato il punto: in Piccolo me racconto davvero me stesso, in prima persona. Voglio usare questo progetto per mettere in luce la parte più profonda di me. Quando ero più giovane mi vergognavo delle cose intime, ma oggi ho capito che la musica è l’unica cosa che mi fa stare bene. È una vera terapia per me. Quando la faccio, non penso ai problemi. Solo la musica – o stare con chi mi ama – riesce a darmi questa sensazione.

Nel presentare il brano hai scritto: “Sento il mio passato che mi parla ma non capisco ancora cosa voglia da me”. Hai trovato delle risposte scrivendo?

Alcune volte, mentre ascolto i pezzi finiti, mi emoziono davvero. Succede anche di piangere. Mentre scrivo è come se stessi liberando un peso, trasformandolo in parole. Questo mi aiuta a leggerlo meglio, a capirlo. Ogni brano è un modo per alleggerirmi.

Hai vissuto esperienze molto diverse tra loro – dall’amore al bullismo, passando per Altamura, Milano e Sanremo. Quanto ti hanno influenzato come artista?

Tantissimo. Anche se sembra un paradosso, ringrazio per quello che mi è successo. Quando ero più giovane non capivo perché dovessi vivere certe cose: il bullismo, il fatto di essere cresciuto al Sud, lontano da certe opportunità. Ma oggi so che quelle esperienze mi hanno dato fame, voglia di mettermi in gioco. Mi hanno costruito un’identità. Anche a Milano ho vissuto momenti duri e ho visto “lo schifo” anche ai piani alti. Quella visione critica mi accompagna sempre e alimenta la mia scrittura.

Quando hai capito davvero che la musica poteva essere una cura per te?

Nel 2019. Avevo appena finito il primo anno a Milano, ero confuso, un’estate molto pesante a livello personale. Da lì ho capito che la mia strada era questa. La musica era ciò che mi teneva insieme.

Rispetto al passato, Piccolo me ha un’anima molto più intima e riflessiva. È questa la direzione che vuoi dare al tuo progetto?

Sì… e no! Sto impazzendo perché vorrei spoilerare un pezzo completamente diverso da Piccolo me, giusto per far capire che non sarò mai prevedibile. In questo progetto ci sono io al 100%, ma non voglio limitarmi. Voglio uscire dai generi. Non dirò più “faccio pop punk” o “faccio emo trap”. Io faccio Plant. Il mio suono, la mia visione.

Hai un’attitudine molto legata all’alt-pop, un genere ancora in evoluzione in Italia. Dove vorresti portarlo?

A me l’alternative piace tanto perché è un calderone di cose diverse ma con un filo comune. Vedo che in Italia sta nascendo un bel sottobosco di artisti con questa attitudine, e mi piace. Per me è importante approcciare la scrittura in modo personale, non standard. Non voglio stazionare in un genere preciso. Voglio sperimentare.

Nella tua musica c’è una forza indipendente che ricorda lo spirito dell’indie di dieci anni fa. È una sensazione voluta?

Sì, oggi più che mai voglio essere reale. Dopo anni in cui ho cercato di togliermi soddisfazioni personali, adesso voglio abbattere ogni involucro. Basta maschere, basta filtri. Voglio raccontarmi per come sono, anche se fa paura. E sì, ho iniziato con i contest di freestyle: quello mi ha dato tantissimo anche a livello di scrittura.

Il freestyle ti ha aiutato nel songwriting?

Tantissimo. Mi ha reso veloce. Lavorando con i produttori mi dicono sempre che scrivo i pezzi in un lampo. Ogni brano che uscirà l’ho scritto in massimo un giorno e mezzo, dall’inizio alla fine. Questo perché ho fatto freestyle per anni, dai 15 ai 19. Mi ha insegnato a improvvisare, a lasciar fluire le parole. E questa cosa mi è rimasta.

C’è anche un forte immaginario visivo nel tuo lavoro. Quanto conta per te l’estetica?

Conta, ma non voglio che sia al centro. Mi piace l’estetica, mi piacciono i vestiti, sono esuberante. Però in questo progetto voglio che la musica abbia la priorità. Voglio che il focus sia su quello che sto dicendo, su quello che ho messo dentro ai pezzi. È la prima volta che mi metto a nudo così.

Ultima domanda. Se potessi tornare indietro, cosa diresti al “piccolo te” che stava iniziando con la musica?

Lo ringrazierei. Perché era solo un bambino, contro tutti, e veniva da un posto dove quello che provava a fare non era affatto scontato. Gli direi: “Sei un grande, continua a spingere, non mollare”.

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