Il lavoro ai tempi del Jobs act dieci anni senza articolo 18

Oggi fanno dieci anni. Tanti ne sono passati da quando una legge dello Stato ha spaccato in due i lavoratori italiani tra garantiti e risarciti. Merito o colpa del Jobs Act, a seconda dei punti di vista. Tante cose, belle e brutte, si possono dire di quella legge delega e dei suoi dieci decreti attuativi […] L'articolo Il lavoro ai tempi del Jobs act dieci anni senza articolo 18 proviene da Iusletter.

Mar 7, 2025 - 18:27
 0
Il lavoro ai tempi del Jobs act dieci anni senza articolo 18

Oggi fanno dieci anni. Tanti ne sono passati da quando una legge dello Stato ha spaccato in due i lavoratori italiani tra garantiti e risarciti. Merito o colpa del Jobs Act, a seconda dei punti di vista. Tante cose, belle e brutte, si possono dire di quella legge delega e dei suoi dieci decreti attuativi che ancora oggi scalda gli animi nel partito che l’ha voluta, il Pd dilaniato tra riformisti e pentiti. Ma solo una pare innegabile: l’articolo 18 è stato picconato. Chi viene licenziato in modo illegittimo ed è stato assunto prima del 7 marzo 2015 può sperare ancora oggi di essere reintegrato al suo posto dal giudice. Gli altri no, avranno solo un indennizzo che sale con l’anzianità. Sono le “tutele crescenti”.

Si sa, molte sentenze della Corte Costituzionale hanno massacrato questo impianto. Dicendo che proprio quelle tutele non crescevano se venivano calcolate in modo asettico un tanto al chilo: due mensilità per ogni anno lavorato fino a un massimo di 24 portate a 36 dal decreto Dignità dei Cinque Stelle. Dicono i giudici che bisogna capire il contesto e il comportamento dell’azienda nelfissare il danno. Dicono anche che in moltissimi casi dare un prezzo al licenziamento quando questo non ha motivo di esistere, e non solo perché discrimina, non basta. La lavoratrice e il lavoratore hanno tutto il diritto di rientrare al loro posto.

Neanche la legge Fornero del 2012, che aveva già ridotto la portata dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, agli occhi dei giudici costituzionali può bastare. A dieci anni dal suo varo la Consulta ne ha corretto due punti cruciali. Quello in cui si dice che un giudice “può” decidere se reintegrare un lavoratore licenziato senza giusta causa, ma solo in presenza di una “manifesta” insussistenza del fatto. La Corte ha tolto il “può”. E ha cancellato quell’aggettivo che nulla significa: “manifesta”. Se non c’è motivo per licenziare, il lavoratore deve tornare al suo posto. Senza se e senza ma. L’insussistenza o c’è o non c’è.E così negli ultimi dieci anni le due riforme, Renzi e Fornero, sono state disossate quasi parola per parola per quanto attiene al licenziamento. La reintegra è ricomparsa nel Jobs Act che la prevedeva solo nei casi di discriminazione. E si è fatta più forte ed ampia di quanto la Fornero avesse previsto, nel primo tentativo di smontare lo Statuto del 1970. Ora ci risiamo.

Nonostante le rasoiate della Consulta, un referendum della Cgil vuole tornare all’articolo 18 per tutti (nella formulazione Fornero, in ogni caso). Il sindacato di Maurizio Landini ha raccolto circa un milione di firme per «eliminare l’odiosa discriminazione » tra il prima e il dopo 7 marzo 2015. Appellandosi a quei 3 milioni e mezzo di lavoratori assunti o stabilizzati dopo quella data. I non protetti.

Complicato raggiungere il quorum, specie su questo tema. Bisogna portare alle urne 26 milioni di italiani tra qualche settimana. Tanti sono coperti dall’articolo 18 vecchio stampo e non se ne preoccupano. I giovani non sanno cos’è quell’articolo. Vivono il lavoro da fantasmi, precari o malpagati. Scappano all’estero appena possono. Si deprimono da Neet quando non ce la fanno: l’Italia ha il record europeo di under 29 che non studiano, non si formano, non lavorano. Eppure per la Cgil vale la pena provarci. Abrogare quel decreto legislativo numero 23 del 2015, quello che mette lo spartiacque tra un prima e un dopo il 7 marzo 2015, significa fermare gli abusi, riconquistare diritti.

I detrattori del referendum lo bollano come ideologico: «Non serve ad aumentare l’occupazione». Forse era ideologico anche toglierlo, l’articolo 18. Doveva privare di alibi le imprese italiane che non crescevano sopra i 15 dipendenti per timore di vederselo applicato. Il nanismo non pare superato. Quanto ai licenziamenti economici liberi perché «ora hanno un prezzo fisso», così dicevano i sostenitori, non sono aumentati. Anzi si sono dimezzati. Mentre sono raddoppiati quelli disciplinari, che persino il Jobs Act punisce con la reintegra se illegittimi. L’occupazione è aumentata, di 11 punti, in tutte le sue sfaccettature comprese le più precarie: part-time involontari e stipendi bassi anche con contratti stabili. Il Jobs Act, come tutte le riforme, non c’entra. Conta la congiuntura, gli incentivi, i mercati.

L’articolo 18 in questi anni è persino diventato un bonus offerto dalle aziende ai neoassunti post 7 marzo. Nel dopo pandemia lo stesso contratto a tempo indeterminato si rivela la forma più gettonata per le assunzioni. Lo smottamento demografico fa temere agli imprenditori di non riuscire a trovare addetti. E quando ci riescono, sperano di trattenerli con accordi stabili. Il licenziamento non è più il problema. Non quanto ilmismatch , l’impossibilità di riempire i posti vacanti. La concorrenza poi si fa sul costo: salari bassi, produttività bassa, Pil allo zero virgola nonostante il record dell’occupazione.

In quest’Italia lenta, ancora oggi nei licenziamenti collettivi c’è un prima e un dopo. Se sono illegittimi, chi è assunto prima del 7 marzo 2015 riprende a lavorare. Se dopo, va via. Una discriminazione che neanche la Consulta ha spazzato via.

L'articolo Il lavoro ai tempi del Jobs act dieci anni senza articolo 18 proviene da Iusletter.