I “Fatti di Rovereta”, cioé quando San Marino rischio di Esplodere, ma si salvò con l’amor patrio
i "Fatti di Rovereta", cioè come San Marino riuscì a superare una crisi esistenziale profondissima perché i cittadini amarono più la Patria che la parte politica. Una lezione dimentica. L'articolo I “Fatti di Rovereta”, cioé quando San Marino rischio di Esplodere, ma si salvò con l’amor patrio proviene da Scenari Economici.


San Marino è il ministato circondato dall’Italia, con la scritta “Libertas” nella bandiera, che a molti può sembrare solo un luogo turistico della Romagna, uno stato da operetta. Eppure nel XX secolo questo mini-stato ha vissuto un momento di grande turbolenza, un vero e proprio colpo di stato che avrebbe potuto sfociare in un bagno di sangue e che invece si risolse grazie all’umanità delle genti romagnole e alla fratellanza fra i cittadini.
Rivediamo questo evento che, sicuramente, è ignoto ai più.
Premessa: Il Contesto Politico e Istituzionale Sammarinese
Prima di addentrarci negli eventi del 1957, è utile delineare brevemente l’assetto istituzionale della Repubblica di San Marino.
Il cuore del sistema politico nmarinese, che deriva direttamente dagli statuti medievali, è il Consiglio Grande e Generale, un parlamento composto da 60 membri (Consiglieri) eletti dai cittadini. Questo organo detiene il potere legislativo e elegge le figure apicali dello Stato.
Tra queste, spiccano i Capitani Reggenti: due capi di Stato che esercitano congiuntamente le loro funzioni per un semestre (dal 1° aprile al 30 settembre e dal 1° ottobre al 31 marzo), anche qui seguendo uno schema comune nel medioevo, che riprendeva i Consoli romani.
La loro elezione avviene solitamente nelle seconde decadi di marzo e settembre. Una caratteristica fondamentale, sancita dagli Statuti fin dalle origini, è il divieto assoluto di rielezione consecutiva allo scadere del mandato semestrale. La loro giurisdizione cessa automaticamente alla fine del semestre, salvo rarissime eccezioni storiche (come nel 1787 o nel 1920) decise esplicitamente dal Consiglio Grande e Generale per fronteggiare situazioni straordinarie. Senza il voto del Consiglio Grande e Generale decadono.
Il Secondo Dopoguerra e il Governo Social-Comunista
Nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, la scena politica sammarinese fu dominata da una coalizione formata dal Partito Comunista Sammarinese (PCS) e dal Partito Socialista Sammarinese (PSS). Questa alleanza governò la Repubblica con maggioranze variabili ma generalmente stabili. All’opposizione si trovavano principalmente il Partito Democratico Cristiano Sammarinese (PDCS) e il Partito Socialista Democratico Sammarinese (PSDS). Le elezioni del 1955, vinte dalla coalizione PCS-PSS con 35 seggi su 60, si svolsero in un clima teso, con accuse di irregolarità e brogli sollevate dalle opposizioni, in particolare riguardo alla decisione della Reggenza di fissare la data delle elezioni (14 agosto) senza una delibera consiliare, una mossa vista come un abuso di potere per favorire la maggioranza.
Ovviamente questo metteva in contrasto San Marino con l’Italia democristiana e anche con gli USA, che gestivano il blocco occidentale. Anche se lo stato era minuscolo, però era in contrasto con l’andamento politico che lo circondava.
Le Crepe nella Maggioranza: L’Impatto degli Eventi Internazionali
La metà degli anni ’50 fu un periodo di profonde scosse nel blocco comunista internazionale. Il XX Congresso del Partito Comunista Sovietico nel febbraio 1956, con la “destalinizzazione” avviata da Nikita Krusciov, e la brutale repressione sovietica della Rivolta Ungherese nell’ottobre-novembre dello stesso anno, crearono sconcerto e divisioni nei partiti comunisti e socialisti in tutto il mondo, Italia e San Marino inclusi.
Questi eventi ebbero un impatto diretto sulla politica sammarinese. All’interno del PSS emersero profonde divergenze. Una fazione, guidata dal segretario del partito Alvaro Casali, iniziò a propugnare un superamento dell’alleanza storica con il PCS per uscire dall’isolamento politico ed economico in cui si trovava la Repubblica, anche a causa della diffidenza del governo italiano (allora a guida DC) verso l’esecutivo sammarinese. Questo contrastava con la linea maggioritaria del partito, legata alla figura di Gino Giacomini, favorevole al mantenimento dell’alleanza con i comunisti.
La tensione culminò all’inizio del 1957:
- Febbraio: Casali e altri due consiglieri socialisti (Domenico e Giuseppe Forcellini) si dimisero dal Congresso di Stato (l’organo esecutivo). Poco dopo, assieme ad altri due consiglieri dissidenti (Federico Micheloni e Pio Galassi), formarono un nuovo gruppo consiliare autonomo di 5 membri.
- Marzo: La frattura fu annunciata pubblicamente in un comizio. Casali venne espulso dal PSS.
- Aprile: I cinque dissidenti fondarono il Partito Socialista Indipendente Sammarinese (PSIS).
Queste defezioni ridussero la maggioranza di governo a soli 30 consiglieri su 60, creando una situazione di stallo politico.
Lo Stallo e le “Dimissioni Finte”
Un elemento cruciale della crisi fu la questione delle “lettere di dimissioni in bianco”. Era prassi consolidata per PCS e PSS far firmare ai propri candidati, prima delle elezioni, una lettera di dimissioni da consigliere priva di data. Queste lettere restavano nelle mani dei segretari di partito come strumento di controllo sulla disciplina dei propri eletti. una pessima abitudine di 70 anni fa, che spesso non è dimenticata neanche oggi.
Dopo la scissione, il PCS premette sul PSS affinché utilizzasse le lettere firmate nel 1955 dai quattro dissidenti (Casali, i due Forcellini, Micheloni; Galassi non l’aveva firmata) per farli decadere dalla carica e sostituirli con i primi dei non eletti. Tuttavia, Gino Giacomini, leader del PSS, si mostrò inizialmente riluttante, sostenendo che tali lettere non avessero valore automatico senza una volontà attuale del consigliere di dimettersi.
Temendo un colpo di mano, il 25 giugno 1957, i quattro dissidenti interessati si presentarono formalmente davanti alla Reggenza per dichiarare nulle le lettere di dimissioni firmate nel 1955 e per affermare la loro intenzione di rimanere in Consiglio. Questa volontà fu ribadita da Casali anche in una seduta consiliare il 28 giugno. Nonostante queste dichiarazioni formali e registrate, la minaccia dell’uso delle lettere di dimissioni continuò a incombere. Del resto era un governo comunista, per fortuna moderato: in Ungheria avevano fucilato per molto, ma molto, meno.
Il 19 Settembre 1957: Il Punto di Rottura
La situazione precipitò in vista della seduta del Consiglio Grande e Generale convocata per il 19 settembre 1957, con all’ordine del giorno l’elezione dei nuovi Capitani Reggenti per il semestre ottobre 1957 – aprile 1958.
Alla vigilia, il 18 settembre, la coalizione di opposizione (PDCS, PSDS) e i dissidenti del PSIS presentarono alla Reggenza un documento, firmato da 30 consiglieri, attestando la perdita della maggioranza da parte del governo in carica e chiedendo il rigoroso rispetto delle norme.
Lo stesso giorno, circolò la notizia che un altro consigliere, Attilio Giannini (eletto come indipendente nella lista del PCS), aveva lasciato la vecchia maggioranza per unirsi all’opposizione.
La mattina del 19 settembre, i rappresentanti della nuova maggioranza, ora forte di 31 consiglieri (23 PDCS, 2 PSDS, 5 PSIS, 1 Indipendente), informarono formalmente la Reggenza della nuova situazione, esibendo anche la dichiarazione scritta di Giannini, e preannunciarono che avrebbero eletto propri candidati Reggenti. Espressero anche preoccupazione per voci di un possibile annullamento della seduta consiliare. La Reggenza, secondo la fonte, assicurò che il Consiglio si sarebbe tenuto regolarmente.
Con il senno di poi questa mossa fu un errore, perché informava anche la maggioranza precedente delle intenzioni della precedente maggioranza, e così lasciava ai comunisti la possibilità di predisporre delle conromisure.
Infatti, poco prima delle 15:00, quando avrebbe dovuto aver luogo la seduta che avrebbe visto nascere la nuova maggioranza e nominare i nuovi Capitani Reggenti, espressione della diversa maggioranza:
- I rappresentanti di PCS e PSS presentarono alla Reggenza 34 lettere di dimissioni datate 19 settembre 1957, apparentemente firmate da tutti i consiglieri della vecchia maggioranza (inclusi i Reggenti in carica) e, crucialmente, anche dai 4 dissidenti del PSIS e da Attilio Giannini, nonostante le loro recenti e formali dichiarazioni contrarie.
- La Reggenza accettò queste dimissioni come valide, dichiarò sciolto il Consiglio Grande e Generale (essendo venuta meno più della metà dei suoi membri, secondo un’interpretazione degli articoli 8 e 11 della legge elettorale del 1920) e annullò di fatto la seduta consiliare.
- Ordinò la chiusura e il presidio del Palazzo Pubblico da parte delle forze dell’ordine (Gendarmeria e Polizia Urbana, comandate dal Capitano Ettore Sozzi), impedendo fisicamente l’accesso ai 31 consiglieri della nuova maggioranza che si presentarono per la seduta.
- La Reggenza emanò un decreto per indire nuove elezioni per il 3 novembre.
Questo atto fu denunciato dalla nuova maggioranza come un vero e proprio “colpo di Stato”, illegittimo per due motivi principali:
- L’accettazione di dimissioni palesemente invalide (quelle dei dissidenti e di Giannini, precedentemente ritrattate).
- L’auto-prolungamento del mandato della Reggenza oltre la scadenza naturale del 30 settembre, avvenuto di fatto annullando l’elezione dei successori, in violazione degli Statuti secolari che prevedono la decisione esclusiva del Consiglio per eventuali proroghe.
Il governo uscente, invece, difese la legalità del proprio operato, sostenendo che di fronte a dimissioni formalmente presentate da oltre metà del Consiglio, la Reggenza non aveva altra scelta che dichiararlo sciolto e indire nuove elezioni.
L’Esilio a Rovereta e il Governo Provvisorio
Nei giorni successivi, la tensione crebbe esponenzialmente. Entrambi gli schieramenti cercarono sostegno all’esterno: la nuova maggioranza presso il governo italiano (DC), l’ambasciata USA e i partiti italiani affini (DC, PSDI); la vecchia maggioranza presso il PCI e il PSI italiani. Personalità politiche italiane come Luigi Preti (PSDI), Adone Zoli (DC, Presidente del Consiglio italiano), Amintore Fanfani (segretario DC), Giancarlo Pajetta (PCI) e Francesco Lami (PSI) furono coinvolte a vario titolo.
Vedendosi impedita la possibilità di esercitare il proprio mandato nella capitale, la nuova maggioranza elaborò un piano segreto. Nella tarda serata del 30 settembre 1957, allo scadere esatto del mandato semestrale della vecchia Reggenza, i 31 consiglieri si riunirono a Rovereta. Rovereta è una frazione (curazia) del castello di Serravalle, situata al confine con l’Italia, in territorio sammarinese, ma geograficamente separata dal resto della Repubblica e facilmente accessibile (e controllabile) dall’esterno. Lì, all’interno di uno stabilimento industriale in disuso, proclamarono la costituzione di un “Governo Provvisorio”, guidato da un Comitato Esecutivo (Bigi, Casali, Giancecchi, Savoretti).
Questo governo ottenne quasi immediatamente il riconoscimento ufficiale da parte dell’Italia, che dispiegò forze dell’ordine italiane (Carabinieri e Polizia) lungo il confine attorno allo stabilimento, garantendone di fatto la sicurezza e isolando ulteriormente il governo rimasto nel Palazzo Pubblico a San Marino Città.
La Milizia Volontaria e lo Stallo Armato
La reazione del governo “del Palazzo” fu quella di istituire, il 1° ottobre, un “Corpo di Milizia Volontaria”, composto dai propri sostenitori e armato, per difendere la capitale da un possibile attacco. Anche i sostenitori del Governo Provvisorio a Rovereta si armarono. Per circa due settimane, San Marino visse una situazione di altissima tensione, con due governi contrapposti, entrambi supportati da milizie armate, e il rischio concreto di uno scontro civile.
Sarebbe bastato un niente per far scoppiare una mini guerra civile. Per fortuna siamo in Romagna: ai giornalisti stranieri, stupiti che le fazioni non si affrontassero con le armi, alcuni cittadini fecero notare che, alla fine, erano tutti imparentati e lo scontro armato sarebbe stato improponibile.
Il rischio è che l’Italia intervenisse, con glà i valichi di confine pesantemente controllati da Carabinieri e polizia italiani.
La Soluzione Pacifica e il Ruolo del Comandante della Gendarmeria
Diversi tentativi di mediazione fallirono. La situazione si sbloccò grazie a due fattori chiave: la decisione del Governo Provvisorio di non usare la forza per marciare sulla capitale e il ruolo cruciale assunto dal Comandante della Gendarmeria, il Capitano Ettore Sozzi.
Sozzi, pur avendo inizialmente eseguito l’ordine della vecchia Reggenza di chiudere il Palazzo, mantenne una posizione volta a garantire l’ordine pubblico e a prevenire spargimenti di sangue. L’8 ottobre, il Governo Provvisorio di Rovereta conferì a Sozzi i pieni poteri per il mantenimento dell’ordine pubblico in tutta la Repubblica. Questa mossa fu di fatto accettata anche dal governo del Palazzo, come testimoniato da un manifesto congiunto emesso il 10 ottobre, che affidava al Comando della Gendarmeria il compito di ripristinare la normalità e invitava i cittadini alla calma.
Alla fine Sozzi fu l’eroe di tutta la vicenda, con un fare equilibrato e di garanzia per tutti.
L’Accordo Finale e l’Insediamento
Con Sozzi garante dell’ordine e della transizione, la crisi si avviò rapidamente alla conclusione:
- 11 ottobre: Il governo del Palazzo dichiarò di cessare ogni resistenza. La Reggenza sciolse la Milizia Volontaria.
- 14 ottobre: Il Governo Provvisorio lasciò Rovereta e, accompagnato da una grande folla festante, salì pacificamente a San Marino Città, insediandosi nel Palazzo Pubblico e assumendo pienamente i poteri.

La Processione comune di tutte le parti alla Pieve di San Marino
I “Fatti di Rovereta” si conclusero così senza vittime, nonostante l’altissima tensione e la presenza di fazioni armate con molto materiale proveniente da olte confine. La vicenda si concluse con un grande processione, a cui parteciparono tutte le parti. alla Pieve di San Marino, con una enorme bandiera, per ringraziare il Santo dello scampato pericolo.
Il cambio di colore portò alla distensione nei rapporti con Italia e USA e, anche, al voto alle donne che il governo di sinistra non aveva approvato. San marino resta indipendente e, per curiosità comune, è un paese Extra UE che ha adottato (indirettamente) l’Euro. Il referendum per l’accesso nella UE non raggiunse il quorum, e, tecnicamente, non è neppure in Schengen.
La vicenda comunque insegna che qualsiasi divisione politica, anche profonda, può essere superata per il bene comune. Una lezione che oggi abbiamo dimenticato, almeno in Italia.
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